Le passanti

Oh, quanto ti ho amata.
Anzi, quanto ci siamo amati.
Facevamo l’amore in continuazione, questo lo ricordo.

Non potrò mai scordare i tuoi occhi limpidi contro lo sfondo cupo del cielo, o i tuoi seni premuti stretti contro il mio petto.
Non ci lasceremo mai andare via, dicevamo, ma il tempo è passato, e anche la nostra relazione.

Ho dimenticato il tuo nome, confuso tra mille altri, perso nel rumore della folla delle otto, su un binario ferroviario, ad aspettare un treno su cui non eri mai salita.
Però ricordo le tue labbra dolci, i tuoi sorrisi sinceri, le tue mani mentre carezzano la mia guancia.
Forse una volta mi hai dato uno schiaffo. Forse una volta la tua silhouette nuda si è stagliata contro il rosso del tramonto, sulla spiaggia.

Non riconoscerei il tuo profumo, ora che i miei sensi non osano avventurarsi nella memoria; eppure un giorno quel tuo profumo mi ha travolto mentre io ero dentro di te, cancellando tutto il resto e lasciando solo quell’istante.
O forse quello era il profumo della ragazza con cui sono stato prima di mettermi con te?
Non mi ricordo.

Di sicuro non ho mai più amato nessun’altra come ho amato te, non ne sono più stato capace, eppure ora che ci penso il tuo sguardo lo ricordavo diverso.
Avevi altre labbra? Scherzavi con dolcezza o ridendo forte? Ci siamo mai tenuti per mano?

Non potrò mai più ricordarti.
Non saprò mai più chi eri o chi sei stata. Oggi, se ti incontrassi nella folla, non riconoscerei il tuo viso.

Hai portato via la parte di me che sapeva amare, e non ricordo nemmeno il tuo nome.

Non credete a voi stessi

Per prima cosa non credete a voi stessi.
“Oh, che tristezza” “che figata!” “mi sono innamorato”, “gli spaccherei la faccia”, “questa è la realizzazione di tutti i miei desideri: finalmente conosco la vera felicità”.
Arriva un momento durante un’emozione in cui il cervello si accorge di quello che sta succedendo, ci mette sopra un timbro e certifica a tutti i pubblici interni che sta succedendo qualcosa.
E voi sollevate un bel sopracciglio, e non gli credete.
Le emozioni sono momenti di distrazione dell’anima. Vengono e se ne vanno prima di poterci mettere il dito sopra.
E poi… felice di che? Arrabbiato per cosa? Non c’è nulla che possa scuotere il nostro essere più profondo: è eterno e immutabile, figurarsi se si trasforma per una emozione o una passione, che è per definizione momentanea.
State intensamente in quell’innamoramento: vi do dieci minuti, solo perché sono un insicuro cronico, e magari qualcuno là fuori può essere davvero duro di legno.
In meno di 1 minuto qualcosa avrà invaso i vostri pensieri. Qualcosa che non c’entra una dannatissima sega con l’emozione che stavate provando.
Vi concedo l’eccezione del dolore, se vi siete fratturati qualcosa o avete le coliche renali o un parto in atto.
Altrimenti è già finita, e allora la verità è che non avete provato nulla, non siete cambiati, siete sempre gli stessi.
Non credete a voi stessi.
E quando vi pare di avere raggiunto una nuova idea, una nuova concezione del mondo, che vi cambierebbe perchè cambierebbe il corso delle vostre azioni, fate lo stesso.
Non credete alle vostre cazzate.
Restate come siete.

Ontologia

Ultimamente mi sto interrogando molto su cosa significhi, per me, il concetto di Altro da me.
Intendo, no, dico, praticamente.
Cogli amichi mia questo dubbio filosofico sarebbe riassunto nella domanda impregnata di messinese: “ma tu, ma cu cazzu sei?”. E tornerei al punto di partenza.
Sicuramente l’altro condivide tutte le qualità tipiche dell’essere umano – e io penso: allora ha tutte le qualità che ho anche io. Magari in misura differente, come mescolate in maniera diversa, ma siamo sostanzialmente uguali.
Lasciamo stare i dubbi ontologici. Se non fosse così, pazienza, sarei filosoficamente più solo in un mondo di alieni. Cazzate, sarei io l’alieno, machissene.

La questione riguarda come ci mescoliamo. L’alchimia che ci rende simpatici o antipatici a pelle, gli argomenti di discussione in comune, i ruoli di interazione, i valori e i gusti, che siano simili o diversissimi.
Difficilissimo venirne a capo

Sensibilità romantica

Chiudo gli occhi, perché l’oscurità mi sommerga di silenzio.
Quando le tenebre sono assolute posso iniziare a sentire me stesso, da lontano, come se fossi un’altra persona.
Lascio emergere sensazioni più sottili, intuizioni che la luce distruggerebbe.
Alcuni vantano l’intensità di certe sensazioni, ma io lavoro a togliere. Le vibrazioni più remote mi scuotono come terremoti, da ogni direzione. È troppo facile essere desensibilizzati dalla sovrastimolazione. Non mi serve.
Quello che mi serve è il tempo e la pace. Per farla diventare guerra interiore.

Resto concentrato sulla sottile linea d’argento che mi lega ancora al mio corpo, che mi impedisce di abbandonarmi del tutto all’oscurità.
Oscurità sempre più densa, sempre più reale, e fonda, e urlante, e fisica.
Penso che se perdessi quella traccia lontana forse più nulla potrebbe riportarmi indietro, e sarei perso per sempre. Considero ogni volta se varrebbe la pena lasciarmi andare del tutto, ma ogni volta il coma profondo non arriva.
Ogni volta ritorno. Con il fiato un po’ corto, con una disperazione nuova, uguale alla precedente.

A questo punto mi do una ripulita e provo ad andare avanti con la mia giornata.
La meditazione non vale una sega, cosa credevate?

Della scoperta delle emozioni

Alla fin fine il senso di ogni emozione si riduce a una constatazione molto banale: mi piace, oppure, non mi piace.

Quando non puoi cambiare la situazione in cui ti trovi (coinquilini di merda, appartamenti orribili, situazioni sgradevoli, una canzone fastidiosa al concerto all’aperto, mentre piove, dopo aver aspettato per tre ore, sotto la pioggia, in mezzo alla calca), la soluzione più banale a questi inconvenienti è quella di staccare la spina alla propria sensibilità.
‘Mascherare’ lo stimolo, così l’ha chiamato un mio amico (faceva riferimento a quegli stimoli ripetuti fino a diventare sfondo. Il cervello, per non uscire dalle orecchie, li occulta. In questo modo puoi abitare in una casa vicina alla ferrovia e, dopo soli pochi anni, smetterai di sentire il treno – avrai ‘mascherato’ lo stimolo).

Ieri sera, al concerto dei Massive Attack, dopo tre ore di attesa in mezzo alla calca, sotto la pioggia, durante una versione particolarmente acida di una canzone, sparata a volumi bulgari, mentre gli schermi proiettavano idee di merda con trucchetti registici degni dei peggiori lavaggi del cervello, ho avuto la poderosa intuizione che quella situazione mi facesse davvero cagare.
No, non avrei lanciato granate sul palco, ma solo perchè non ho le granate, e poi non sono il tipo di persona che quando gli sparano su un piede pensa subito alla vendetta. Mi piace accasciarmi a terra e urlare. Ci tengo a dare feedback chiari.

Comunque, accasciarmi a terra e urlare non mi avrebbe aiutato, e quindi ho dovuto fronteggiare la banalità che conoscevo fin dall’inizio di questo post – e magari anche da prima: quella canzone non mi piaceva.
La verità non mi rende libero.