No, non è un racconto sulla brutta pratica dell’autocitazione, ma la pietra tombale (l’ennesima, se possibile) sul fatto che sto scrivendo poco.
Però questo raccontino credo sia la cosa migliore che ho scritto, forse in assoluto, e non l’ha letta praticamente nessuno (a parte Menteminima).
Così mi chiedo, ma questo racconto mi sarebbe valsa una chance con Mezzocentimetro?
E, cazzate a parte, mi piacerebbe sentire qualche commento di altri estimatori e lettori.
L’Inverno sta arrivando, e le mie scorte di identità e buonumore sono già pericolosamente sottili. Tornare a un passato mitico che non tornerà (leggete: “illudersi di…”) mi solleverebbe l’umore.
A voi in pasto il mio passato di caratteri su schermo e brutti sogni:
In misura minore questo è quello che succede ai cervelli di tutti, e nelle mie elucubrazioni sull’identità volevo solo spingere un pochino l’acceleratore, e vedere dove avrebbero potuto portare certi meccanismi.
Sono circa 1400 parole, e si dovrebbero poter leggere in circa 5 minuti.
Se vi sembrano 86 minuti avvisatemi: forse mi è sfuggito qualche refuso.
Se vi sembrano solo 2 minuti avvisatemi: è ora che scriva qualcos’altro.
Era proprio lei, voglio dire, non mi sono confuso. Gabriella me la ricordo bene, mi ero preso una cotta mica da ridere al liceo, più di venti anni fa, eppure ora stava lì, di fronte a me, davanti alle porte del vagone della metropolitana, e non ancora diciottenne.
Non era invecchiata di un giorno, e se non fosse stato per i jeans attillatissimi e il giubbotto in pelle alla moda, non mi sarei accorto che era solo un’altra ragazza che le assomigliava.
Le assomigliava in maniera sorprendente.
La ragazza si ravviò i capelli dietro l’orecchio, con un gesto che mi era tanto familiare anche dopo tanti anni, e si preparò a scendere dalla metropolitana.
Fu l’impulso di un momento, ma la somiglianza era impossibile, così senza pensarci scesi anche io, anche se non era la mia fermata.
Stazione sconosciuta, corpi, cappotti, valigette, cappellini, trolley, cartelloni pubblicitari e piastrelle ingrigite dalla patina di umanità.
E in mezzo alla folla persi di vista la ragazza che tanto assomigliava alla Gabriella del mio passato, ma ebbi comunque una sorpresa: Dario, il mio amico dell’università! Eravamo stati inseparabili per anni, al punto da essere stati insieme alle stesse ragazze (Elisabetta e poi Michela: la prima è stata con me qualche mese prima di invaghirsi di Dario, l’altra è stata tre anni con lui, prima di mollarlo e mettersi con me dopo finita l’università).
Mi sbraccio e attiro la sua attenzione, ma Dario non mi riconosce: in effetti non ha nemmeno un capello grigio e sembra un impiegatuccio appena assunto, con il completo che cade grande sulle spalle e i pantaloni troppo lunghi sulle gambe magre, mentre come mio coscritto dovrebbe avere almeno una ampia pelata, e più di qualche capello grigio.
Sembra addirittura un po’ spaventato per il mio saluto e accelera il passo.
Devo essermi confuso.
Due volte di fila.
Resto pensoso sulla banchina in attesa del prossimo treno della metropolitana, ma vengo distratto da una signora che mi chiede l’ora.
È Elisabetta. La stessa Elisabetta che il sosia di Dario mi ha fatto tornare alla memoria. Per non sbagliarmi controllo bene le piccole rughe intorno agli occhi verdi: sembra molto abbronzata, e questo fa risaltare il suo sguardo. Quando siamo stati insieme, per quanto la nostra storia fosse durata solo pochi mesi, era già molto consapevole della profondità del suo sguardo, ma con questo trucco pesante l’effetto si accentua, e mi sembra di perdermi nei suoi occhi.
“Elisabetta! Che piacere rivederti! Dopo tutti questi anni…”, ma la frase mi muore in gola.
Gli occhi bistrati sono atteggiati a smarrimento. Sorride solo con la bocca, denti bianchi, e mi dice la frase di circostanza “mi spiace, ma forse mi confonde con qualcun altro”.
È il mio turno di essere smarrito. Mi scuso, ma non riesco ancora a capacitarmi della incredibile coincidenza. Mi scuso ancora, le dico l’ora, mi faccio coraggio: le dico che la mia amica aveva un piccolo tatuaggio dietro l’orecchio, e la signora ride e mi mostra che lei non ha e non ha mai avuto simili tatuaggi. Mi mostra la pelle dietro entrambe le orecchie, per farmi verificare. Non è Elisabetta, si chiama Caterina. Eppure ogni movenza, il taglio della bocca, le dita lunghe delle mani. Come avrei potuto distinguerla?
Sono evidentemente confuso, ma per darmi un tono e cercare di ricompormi rido con lei, e ne approfitto per invitarla a prendere un caffè. Non le sfugge come questo approccio sia una richiesta di aiuto, a malapena camuffata: qualcosa di strano mi sta succedendo, e ho bisogno di avere qualcuno vicino per ricomporre il mio mondo.
Il fatto che lei assomigli tanto a Elisabetta poi mi sbilancia continuamente: non riesco a non rivivere le stesse sensazioni che provavo oltre venti anni fa, quando non stavo nella pelle per avere stretto un rapporto con una ragazza tanto bella. Non riuscivo a staccarle le mani di dosso, e mi sembrava di avere il mondo tra le mani.
Ora devo fare uno sforzo per non lasciarmi andare come avevo fatto allora.
Ci sediamo in un caffè e ordiniamo. Lei mi studia con attenzione, mentre mi tengo le mani in mano. Se non le tenessi so che tremerebbero per l’eccitazione di ricordare Elisabetta e per la stranezza di non riuscire più a arginare i ricordi di così tante persone del mio passato, che continuano a comparirmi davanti.
Il cameriere è identico a mio figlio, solo non ha quel ridicolo orecchino e si è lasciato crescere il pizzetto. La passante che ci sfiora potrebbe essere la mia maestra delle elementari, se non fosse morta da quindici anni. Il signore distinto che sorseggia un caffè nel tavolino accanto al nostro è identico al mio insegnante di nuoto, invecchiato e smagrito, ma è indubbiamente lui.
È come se si fosse rotta una diga nella mia mente.
Mi passo il fazzoletto sulla fronte sudata, e mi accorgo che Caterina mi sta fissando con una espressione accigliata: “lei assomiglia molto a un mio vecchio amico, me ne sono accorta solo ora che si è asciugato la fronte come faceva sempre lui. Mi manca molto.”
Il sorriso che mi rivolge è molto triste, e cerco di sorriderle di rimando, ma credo mi riesca solo una smorfia pietosa: lei per me è e continua a essere Elisabetta.
Provo le stesse emozioni di quasi venti anni fa, ma questo momento che ripete il passato non mi appartiene. I miei sentimenti si ribellano contro quello che so.
Questa donna si chiama Caterina, mi ricorda Elisabetta. Si muove come lei, ma è un’altra persona.
Se davvero anche io per lei sono un simulacro di un passato che non avrebbe dovuto ripetersi, mi vergogno di essermi asciugato la fronte con quel gesto distratto.
Mi imbarazza avere rubato un gesto a qualcuno che l’aveva posseduto prima di me.
Mi svilisce essere paragonato e assimilato a qualcun altro, a uno sconosciuto di cui non so nulla, se non che è stato importante per Elisabetta. Caterina, volevo dire che è stato importante per Caterina.
Intorno a noi anche i passanti cominciano a mostrare gli stessi preoccupanti segni: il figlio che vedo nei weekend, sbarbato e in divisa da cameriere, approccia il distinto insegnante di nuoto, che forse non ha mai nuotato in vita sua e gli dice: “Scusi se la disturbo, ma lei è identico a mio nonno! Sa, è mancato pochi mesi fa”.
Cancello presto la stortura che mi deforma la bocca, e che avrebbe voluto essere un sorriso di comprensione per la mia compagna di sventure, e mi concentro sulla situazione, che non può essere vera.
Forse si tratta di una malattia cerebrale. Forse è grave. Magari è anche contagiosa.
Una di quelle nuove epidemie che spuntano fuori ogni tanto, e nel giro di due settimane diventano un passato allarme sui telegiornali, dopo che il virus è stato isolato e neutralizzato: le migliaia di vittime presto dimenticate da tutti, eccetto che da chi le conosceva, per cui diventano una storia da raccontare.
“Un mio caro amico! Un parente! Una fidanzata! È morta per quella famosa malattia, quella che poi hanno debellato”.
E poi la mia fantasia conclude questo dialogo immaginario chiudendo il cerchio: “Lei le assomiglia moltissimo…”
Non aspettiamo oltre la reazione del signore al riconoscimento da parte del cameriere: mi alzo e afferro la mano di Elisabetta (Caterina!). Le faccio segno che non c’è tempo da perdere.
Lascio gli spiccioli sul tavolino e ci allontaniamo veloci.
Sui marciapiedi intanto chi non ha una faccia stravolta e gli occhi bassi sfida e riconosce i propri fantasmi negli altri passanti.
Tutti si riconoscono.
Io tengo la testa bassa, ma quando sbircio avanti rivedo persone che non sapevo di ricordare. Compagni di classe delle elementari, sbiaditi, riprendono forma fisica.
La mia pediatra, colleghi, professionisti, amici, e via via fino ai conoscenti occasionali, di cui non ho mai saputo il nome, ma di cui riconosco perfettamente le fattezze nelle persone di cui incrocio lo sguardo.
I passanti sono coloro che passano, ma mai avevo dato il giusto valore a questa parola.
Una o due persone mi riconoscono a loro volta, e mi chiamano addirittura con nomi che non mi identificano: “Claudio!”, e poi “Antonio, cosa ci fai qui in città?”
Mi sforzo di ignorarli. Tiro la mano di Elisabetta per non lasciare che venga riconosciuta nei passati di altri passanti. “Sabrina!” “Marta!”.
Nomi propri, senza nessun corpo su cui fissarsi.
Quando non riesco più a trattenermi ci infiliamo in un portone aperto e senza nemmeno più sapere cosa sto facendo la abbraccio e scoppio a piangere.
Anche lei risponde al mio abbraccio, e sembra che non sia passato nemmeno un istante da quando facevamo all’amore e non ci toglievamo le mani di dosso. Cerco la sua bocca e ci baciamo nel sapore delle lacrime, con la passione data dalla paura.
In un soffio mi escono le parole che tenevo strette, che più di ogni cosa volevo seppellire dentro di me: “Elisabetta ti amo, ti amo, non ho mai smesso di amarti in tutti questi anni”.
“Lo sai che non possiamo stare insieme Franco, lo sai” mi risponde lei “dobbiamo smetterla di vederci, anche se mi manchi. Quanto ti desidero ancora adesso, Franco!”
Io non dico niente. Non voglio niente altro che abbracciarla, e vivere ancora quel sogno che sembrava passato irrimediabilmente.
Mi chiamavo Guido.
Passeggiavo lungo il fiume
Fischiettando un brivido solitario
Pensavo a milioni di vite diverse.
Lei salì danzando su una montagna
Spargendo il suo candore come una fontana
E un indizio di turchese in frantumi negli occhi.
Si fece tutta la strada per dirmi che no
Non c’era una sola possibilità che io stessi come stavo
Dissi:
“il tuo detto è a doppio Taglio”.
Lei disse:
“Ehi, questa è una bella battuta, ma purtroppo non è
vera”
Lei disse:
“Stai solo cercando qualcuno che ti ami”.
Ora sappiamo tutti che il mondo sta morendo
E le spese si moltiplicano
Ma puoi provare a fartene anche tu una ragione.
Lascia che ti porti a fare un giro
Ti porterò a fare un giro
‘Ché col tempo
Sarai mia
Quando sarai mia
Andrà tutto bene yeah!
A quell’epoca non mi sentivo così bene.
A quell’epoca non mi sentivo così bene.
Non bramavo strane delizie
Non lampeggiavo nel buio della notte
Non andavo per umori aperiodici.
Non soffrivo di strane morti
Non avevo mai pensato che non fosse scomodo
Ma quando mi è toccato ho dovuto solo darci un Taglio
Non mi ha mai lasciato meravigliarmi o anche solo pensare
Solo agire agire d’istinto
Mi ha lasciato lì, ma non mi ha lasciato scelta.
Ora ho sentito storie su questo genere di cose
A casaccio ti trascinano dentro
E ti fanno fare cose che non avresti mai pensato di fare.
Una notte mi ha fatto disperare
Cosa sarebbe successo se qualcuno mi avesse scoperto?
Ancora oggi mi chiedo come l’abbiano saputo.
Cominciarono a spargere voci sul mio stato
Sapete come vanno le cose da queste parti,
Di tanto in tanto hanno solo bisogno di qualcuno da fare a pezzi.
I miei sensi sono offuscati ma posso sentirlo
Quattro, cinque anni mi sono stati strappati via.
Se me lo chiedete, non avrei modo di provarlo.
La puzza di isteria era chimica,
L’aria attorno a me spessa e fisica,
La mia mente girava ma io stesso non mi potevo muovere.
Sarei fuggito via, via, via, via, via, via, via, via…
Via, via, via, via, via…
Ora ho sentito storie su questo genere di cose,
Non perde, le basta lasciarti vincere
Con un po’ di fortuna puoi uscirne senza troppi lividi.
Una tale rabbia da non poterla sfogare
Così tanta energia da non poterla usare
Mi avrebbe fottuto di brutto se non ci avessi dato un Taglio.
Yeah.
Non soffrivo di strane morti
Non avevo mai pensato che non fosse scomodo
La prossima volta che mi toccherà sarò pronto, perché ora so.
Sarò pronto
Sarò pronto
Liberamente tradotto da “Let’s see who goes down first” dei dEUS.
Diversi esempi di come si può opporre resistenza passivo-aggressiva al telemarketing, di come possono degradare le telefonate di telemarketing selvaggio delle migliori aziende telefoniche italiane e mondiali, e come l’attrito costante con il mondo reale di questi personaggi dell’assurdo mi faccia venire l’orticaria e i dubbi sulla mia autostima e sulla mia identità di persona.
Regole inviolabili del Telemarketing:
1) Mai mancare di dare del “lei” all’interlocutore: siamo professionisti e la Gente ci stima.
2) Mai ascoltare il cliente. Mai ascoltare l’addetto/a di telemarketing. Per nessuna ragione.
3) Nessuna tecnica funziona per liberarsi di questi invadenti. Tanto vale divertirsi.
4) È sempre un dialogo. Non intervengono mai colleghi, nè superiori, nè familiari. Non ci sono testimoni (a parte il nastro registrato in qualche oscura sede di telemarketing in India).
5) Gli addetti al telemarketing sono lavoratori onesti, lo so, ma sono anche i soldati semplici di un meccanismo che ha trasformato un normale strumento di marketing in un incubo insopportabile, e un oggetto indispensabile oggi (il cellulare, il telefono fisso o lo smartphone) in una breccia nel mio vissuto privato, come se ci fosse ancora qualcosa da saccheggiare o da violare.
Quindi sono complici: non meritano durante il loro quotidiano lavoro di martellamento nessuna solidarietà umana, perché loro non ne hanno con i destinatari delle loro telefonate commerciali.
6) il punto 4 significa che potete usare o modificare qualsiasi risposta che qui è soltanto suggerita come linea guida. Sperimentare va bene, perché se trovate una formula per fare sì che il vostro nome sia sradicato e cancellato dai Libri Mastri degli Adetti al Telemarketing allora dovrete diffonderla, anche e soprattutto se in palese violazione della regola numero 3.
Breve legenda: AT = Io, Andreataglio. TM = Sgherro del Telemarketing Mondiale.
Dialogo 1
TM: Buongiorno, sono Frzbraaa, della Smngr, lei è il Sig. Taglio? AT: Non mi interessa, grazie. TM: Ma volevo proporle un abbona… AT: Grazie, non mi interessa. Possiamo finirla qui o vuole sentire le urla di dolore? TM [sempre più lontano dal microfono del telefono]: mavvaffanculova CLICK tuu tuu tuu tuu tuu.
Dialogo 2
TM: Buongiorno, sono Alviopierobertogiorgioberto, parlo con il Sig. Tag… AT: Non mi interessa, per favore eliminate il mio nome dai vostri archivi. TM: Ma, signore, non me ne frega niente di lei, perchè il mondo è pieno di fessi che continuano a cedere alle lusinghe del telemarketing, quindi la statistica dice che più volte la chiamiamo nello stesso minuto, maggiori sono le possibilità che lei accetti la nostra offerta. Qui con me nel mio open space ci sono almeno altri 16 addetti al telemarketing pronti a sfrantumarle i … AT: Se vi sento ancora denuncio la sua azienda e le rigo la macchina. Non sono escluse ritorsioni fino alla parentela di quarto grado. Lei ci tiene alla sorella della cugina del suo capo?
Dialogo 3
TM: Buongiorno sono [Satana]. Parlo con il Sig. Taglio? AT: No, qui è l’asilo provinciale di Vercingetorige, in provincia di Asa Asika. Chiama perchè vuole un bambino? TM: Ma io chiamo per proporle anni luce di merda, da cui non si potrà liberare mai più, per lei e per il suo telefono, alla modica somma di [peggio di un mutuo quarantennale] AT: Li abbiamo bianchi e neri. Quelli verdognoli sono così perché ci sono stati ritornati senza qualche organo importante e senza garanzia. Le va se le mando un maschietto già usato per cominciare?
Dialogo 4
TM: Buongiorno, parlo con il Sig. [identità sempre più astratta e ora completamente scollegata da questa telefonata e dal mondo reale]? AT: Sì, sono io. Che piacere sentirla. Avevo proprio una curiosità da soddisfare: lei, personalmente, ha mai pensato alle chat erotiche? Cioè, come esercizio di speculazione astratta. Ha mai pensato al telefono come oggetto feticcio? E in questo caso intenderebbe il telefono come oggetto feticcio fisico o come mezzo di comunicazione feticcio? Cioè, si masturberebbe durante il suo lavoro di telemarketing? O a casa si masturberebbe con il telefono fisso? TM: Possiamo darle 500 minuti gratis ogni minuto, per sempre, più un serpente arcobaleno e un continente a sua scelta. Preferisce l’Asia o il Sudamerica (le spese di mantenimento dei ghiacci del polo nord saranno a suo carico)? AT: Ho sbagliato tutto nella vita, ma non sono ancora pronto per ammetterlo accettando l’offerta disdicevole della sua azienda eticamente discutibile. Ora potrebbe cancellare il mio nome dai vostri archivi e la mia vita dal mainframe di Matrix, a cui appartengo fedelmente da anni?
Dialogo 5
TM: Buongiorno Sig. Taglio, è proprio lei? Sta bene? Che piacere risentirla. Si ricorda di me? abbiamo parlato quasi 8 secondi fa. È libero adesso? Non devo farle un’offerta di telefonia mobile [argh,grn, ah, non resisto, non resisto, aghn, fatemi fare un’ultima offerta di telefonia mobile, poi smetto, poi smetto!]. Invece le offrirei una nuova opportunità di lavoro, compatibile con la sua qualifica e il suo stato mentale ed emotivo. Posso spiegarle di cosa si tratta?
Lei dovrebbe scavare piccole gallerie nei 5 centimetri di catrame rovente appena steso sulle autostrade con il rullo compressore per il resto della sua vita, e in cambio noi le daremo un cellulare di ultima generazione e schiavizzeremo altri 50000 neolaureati con l’aspettativa di vita di 6 mesi, perchè la chiamino ogni secondo libero del suo nuovo lavoro. AT: ma è un’offerta meravigliosa! Come ho vissuto fino a oggi senza averla accettata! Presto, mi mandi a casa, a un indirizzo sbagliato, un camion di contratti tutti uguali, attraverso il reticolo autostradale con l’asfalto tutto nuovo e bucherellato di minuscole gallerie che avrò preventivamente scavato nel corso della mia vita, così glieli firmo (i contratti tutti uguali) con la mia migliore firma falsa. Ora mi scusi ma per oggi ho proprio finito
Raccontino nato dalle foto e l’ispirazione di http://321clic.com/ , che ringrazio tantissimo per la collaborazione e le foto meravigliose!
Sheryl camminava a testa alta, tenendo in braccio i libri e confidando negli amuleti della setta, ma in quella zona della città i teppisti avevano spaccato metodicamente le lampadine dei lampioni per anni, e il buio la metteva a disagio, perciò il passo era veloce.
Non voleva fare brutti incontri – e nel buio non avrebbe potuto vederli arrivare.
Era una bella donna, fiera e combattiva, che aveva dovuto crearsi le proprie occasioni in una società in cui, nonostante tutto, la parità dei sessi era ancora un miraggio lontano.
La rabbia, al solo pensiero delle ingiustizie subite e della paura che tutto sommato il buio le ispirava, la spingevano a camminare ancora più veloce, facendo risuonare ancora più forti i tacchi sul cemento.
Nei mesi precedenti la rottura dell’ennesima relazione e i continui litigi sul lavoro l’avevano fatta avvicinare a una delle nuove sette che nascevano ogni momento. I Neo Induisti promettevano una rinascita che avrebbe riavviato il Grande Ciclo della Reincarnazione: la soluzione di tutti i problemi, e il Maestro aveva dato prova di una grande conoscenza dell’esoterismo occulto.
Era stato proprio lui, un uomo inquietante, con i capelli bianchi, sulla settantina, ad avvicinarla dopo qualche settimana da quando aveva iniziato a frequentare il gruppo, ordinandole di recarsi in un luogo particolare, un luogo ricco di “vibrazioni energetiche sopite” per “risvegliare il cambiamento” e sbloccare il Ciclo delle Reincarnazioni.
Il giorno dopo bambina pestifera al supermercato, senza alcuna ragione, le aveva parlato di una vecchia stazione abbandonata della metropolitana, e aveva aggiunto che il buio avrebbe agito da catalizzatore.
“Maestro, siete voi?”, ma la bambina semplicemente corse via a giocare con il carrello della spesa di sua mamma.
Sheryl rimase agghiacciata, davanti al reparto detersivi. Aveva capito bene? O si era immaginata tutto?
La dottrina della setta spiegava chiaramente che il vero cambiamento era sempre preceduto dalla paura e dalla confusione, ma non essere sicura dei propri sensi la scuoteva nel profondo: che controllo aveva sulla propria vita se non poteva nemmeno fidarsi di se stessa?
Pensò di smettere tutto e andarsene, di arrangiarsi con il suo brutto carattere e semplicemente tirare avanti, ma nello stato di confusione in cui si trovava le sembrava che non sarebbe stato possibile, e solo arrivare in fondo al percorso l’avrebbe liberata dal terrore che la attanagliava.
La sera stessa Sheryl raccolse gli amuleti e i libri e chiamò il taxi: la stazione della metropolitana dove doveva recarsi era in una zone pericolosa della città, e il taxi non si sarebbe avvicinato troppo: avrebbe dovuto camminare.
Camminando così veloce, al buio, si trovò all’improvviso in mezzo a un gruppetto di giovinastri.
Per un attimo ebbe l’impressione che fossero sorpresi quanto lei dell’incontro, ma non si fermò per verificarlo e non si guardò indietro: accelerò ancora il passo e strinse forte al petto i libri, e in mano lo spray al peperoncino.
I giovani schiamazzarono seguendola, urlando oscenità ubriache.
Una bottiglia di vetro, lanciata in modo maldestro, le esplose a qualche metro di distanza, ma si costrinse a camminare e a non lasciarsi coinvolgere: piccoli maleducati! Se si fosse fermata li avrebbe rimandati in lacrime ad attaccarsi alle sottane delle loro mamme!
Rimase quindi sorpresa quando uno di loro, dopo che li aveva praticamente seminati, le gridò “Vai, scappa! Non ti fermare: sei sulla strada giusta!”.
Le sembrò di riconoscere il Maestro, e continuò a camminare di buon passo.
Nel buio la strada sembrava non finire più, ma dopo un ultimo corridoio rialzato e un piccolo parco si trovò di fronte l’ingresso della stazione.
Le porte erano chiuse, ma la serratura era sfondata, quindi bastò spingere per ritrovarsi nel grande atrio deserto. Una luce in distanza la attirò verso una lunghissima scala mobile che conduceva nelle viscere della terra.
Stranamente la scala mobile era funzionante e illuminata, a differenza delle altre aree della stazione.
Sheryl non esitò un secondo e si mise su uno dei gradini, scendendoli per assecondare il movimento della scala.
La discesa fu allucinante.
Il tunnel era tutto uguale, impersonale. Le luci al neon erano fredde e disumane.
In un paio di momenti le sembrò di stare perdendo anche il senso del tempo: si chiese da quanto tempo stava scendendo e se si fosse distratta, o addormentata e quelle scale mobili non fossero un sogno in procinto di diventare un incubo.
Nei momenti in cui la sua mente non riusciva a sopportare la noia della discesa ebbe il tempo di ripensare a tutta la sua vita, come una sgradevole e colpevole successione di errori.
Quando finalmente arrivò al termine della scala mobile si trovò in un ampia sala illuminata, con una banchina affacciata su un binario, e moltissimi corridoi. I corridoi e le gallerie al di fuori della sala erano immersi nell’oscurità, da cui sembrava di sentire premere l’anima stessa della Terra.
Era questo il posto.
Sheryl preparò il Circolo della Rinascita come le era stato insegnato, distribuendo gli oggetti rituali intorno a se, le candele accese a marcare i punti cardinali, i frammenti del suo passato, dei vecchi diari, le chiavi di casa, delle monete, la carta di identità.
Quando tutto fu pronto si inginocchiò al centro del cerchio e si immerse nella meditazione.
Appena chiuse gli occhi la pressione della Terra la aggredì con prepotenza. Un ventre inconcepibilmente vasto premette da tutti i lati contro i confini della sua identità, erodendoli.
Dove si trovava, sottoterra, era come un embrione ancora non sviluppato, ma la sua personalità lottava ferocemente contro questa perdita di identità.
Schiacciata dalla pressione, alle soglie del panico, socchiuse gli occhi per riprendere contatto con la realtà, solo per scoprirsi prigioniera di un corpo instabile.
Il dorso delle sue mani mostrava peli villosi e dita grosse da boscaiolo, subito prima di allungarsi in una mano da pianista e poi di nuovo minuta di bambino.
Le ginocchia sotto di lei divennero grosse e artritiche in un attimo, poi sottili da ragazzina e nodose da scalatore.
Non riusciva più a ritrovare un corpo che corrispondesse alla sua persona, una incarnazione stabile.
Era intrappolata in un ciclo accelerato di trasformazione.
Il barbone che usciva da uno dei tunnel oscuri vide un fagotto di stracci e di forme dimenarsi, al centro di un cerchio composto con vari oggetti di varia natura.
Le passò accanto senza indagare troppo, nonostante le richieste di aiuto che la voce, ora greve e ora squillante, gli rivolgeva.
“Maestro!” gridava. “Maestro! Ti prego!”.
Il barbone andò dritto verso la porta della centralina della stazione, e lì si dimenticò della creatura che si contorceva al centro della sala e diventò un tecnico dei treni metropolitani. Estrasse da una tasca una chiave e aprì la porticina di servizio. Con un gesto sicuro abbassò la leva che bloccò la scala mobile e fece sprofondare tutta la sala e le scale nelle tenebre.
Sherly, o chiunque fosse diventata, fu paralizzata dallo shock e dal terrore di essere immersa nella più completa oscurità.
Non il buio cittadino, rischiarato in distanza dall’inquinamento luminoso o da qualche sparuto lampione. Non l’oscurità dei boschi, dove può filtrare la luce della luna.
L’oscurità delle profondità della Terra. Una Oscurità informe, infinita, che cancellò in un secondo le angosce di Sheryl e di tutti i corpi che si modificavano in lei, sostituendoli solo con la percezione del pericolo. Il panico.
Il terrore che ci potesse essere un pericolo nascosto nella vastità di quelle tenebre la fece raggomitolare in posizione fetale, senza più nessuna mutazione sconnessa. Esisteva un solo pensiero e un solo desiderio: sopravvivere.
Da quel desiderio nacque una azione, che fu l’immobilità e il silenzio. Per non attirare l’attenzione di qualunque cosa si potesse nascondere nel buio.
Sheryl, o qualunque cosa fosse diventata, stette immobile per un tempo lunghissimo, fino a perderne cognizione, finchè il respiro rallentò, e al panico subentrò la consapevolezza di essere ancora viva.
Non sapeva ancora chi fosse diventata, ma era viva.
Se era sopravvissuta all’oscurità allora avrebbe potuto continuare a farlo. Iniziare a farlo meglio.
Ora l’evoluzione aveva una direzione.
Se nell’Oscurità non c’erano dei pericoli nascosti, allora forse poteva essere lei, quel pericolo nascosto.
Quando il Ciclo della Reincarnazione si fosse completato sarebbe stata lei ad incutere il timore che prima aveva subito.
Quando fu il momento, molti battiti di cuore dopo, qualcosa si mosse, senza fare nessun rumore. Raccolse degli oggetti sparpagliati sulle piastrelle della stazione della metropolitana, benchè non ci fosse nessuna luce per vederli, e iniziò una lunga salita sulle scale mobili spente e ferme.
Dalla stazione della metropolitana uscì una ragazza asciutta, ma nessuno se ne accorse, perchè in quel quartiere i vandali avevano spaccato tutte le lampadine dei lampioni, e la ragazza si muoveva in completo silenzio.
La ragazza, Sheryl era il suo nome, non sberciava la propria presenza, non cercava lo scontro, ma sapeva nascondersi e sparire dall’attenzione altrui – e se fosse stato necessario, e si fosse presentata l’occasione, avrebbe colpito dall’ombra.
Non sarebbe mai più tornata agli incontri dei Neo Induisti.
Qualche tempo dopo, prima che quella notte orribile volgesse al termine, una guardia giurata, che nessuno aveva visto entrare, uscì da una stazione abbandonata della metropolitana, e se ne andò verso una nuova giornata, o forse una nuova vita.
Un altro esercizio, in cui era richiesto di ricavare una storia combinando una foto di una vecchia cucina economica e un brano scelto a caso da un libro (“Chiese l’elemosina a parecchi individui dal portamento grave: tutti gli risposero che se avesse continuato a fare quel mestiere l’avrebbero rinchiuso in una casa di correzione per insegnargli a vivere” dal Candido di Voltaire). Il genere che avrei dovuto adottare è stato, per fortuna, il noir.
Questo è il risultato.
E voi? che storia avreste ricavato da questi elementi?
Chiese l’elemosina a parecchi individui dal portamento grave: tutti gli risposero che se avesse continuato a fare quel mestiere l’avrebbero rinchiuso in una casa di correzione per insegnargli a vivere.
Ma cosa avrebbero potuto insegnargli? Ora che aveva cinquant’anni suonati e sua moglie, il suo amore, l’unica gioia della sua vita, stava fredda, in una cassa di legno, a marcire sottoterra?
Quindi rise in faccia ai compaesani così seri. Una risata sgradevole, sarcastica e sprezzante, per poi tornare, acidamente divertito, a implorare una sigaretta, un po’ di tabacco, un giornale o dei cartoni per avvolgersi la notte.
I poveri uomini, nelle giacche della domenica, se ne andavano di corsa a casa, irritati e turbati da quel coscritto impazzito e malvagio, avvolto in un pastrano impolverato, che iniziava a puzzare di piscio.
Mostrando ai suoi compaesani un totale disinteresse per le più elementari norme del buon vivere sconvolgeva gli equilibri delle loro vite, strette tra il duro lavoro e il piccolo bracconaggio.
Che la morte della Mariute avesse stravolto il Luìs lo avevano capito tutti, ma nessuno sapeva cosa fare per lui, e, come spesso succede nei paeselli, a dirla tutta, a nessuno interessava poi tanto aiutarlo.
Presto si abituarono, e il Luìs divenne un’ombra invisibile per i compaesani.
Solo Nina, la sorellina di Mariute, rimasta nubile e casta perchè ascoltava troppo il prete e andava troppo a messa, lo vedeva ancora, mentre piangeva in silenzio, all’angolo della strada bianca che porta alla chiesa, la domenica mattina, ignorato come un cencio da tutti gli uomini perbene, e dalle loro donne, e dai bambini, a cui i genitori avevano detto di fare finta che non esistesse.
E allora Nina dopo la messa se lo portava in casa, di nascosto, che non stava bene portarsi in casa un uomo, e gli dava da mangiare quello che aveva, e parlavano un poco.
E Luìs vedeva tutto quello che succedeva nel paese, e non era diventato stupido, ma più furbo. E sapeva tutto e diceva poco, che stava incominciando a capire anche lui.
Quando Mariute si ammalò, Luìs si tormentava il cappello davanti al medico che era venuto a visitarla, ‘il Dotòr Gambalossi’. Gli chiedeva speranza senza guardarlo negli occhi. Una parola, un miracolo.
La tubercolosi era una brutta roba, ma le medicine c’erano, bastava sapere quelle giuste, ma niente, il Dotòr stringeva le labbra, accennava anche un mezzo sorriso, e se ne andava, guidando l’unica macchina del paese, sollevando una fumera di polvere bianca dalla strada non asfaltata.
La sua Mariute era la donna più bella del paese, anzi, la più bella delle valli!, ma chi lo sapeva della musica che ascoltavano insieme, dopo aver dato da mangiare alle bestie, quando veniva buio?
Avevano speso una piccola fortuna per quel giradischi e per quei dischi di vinile, che venivano dall’America, come il primo, quello portato da un soldato americano di passaggio, dopo la Guerra.
La sera tenevano il volume basso, per non consumare i dischi e per non farsi sentire dai vicini: chi avrebbe capito la gioia che provavano loro due, a ballare insieme sulle arie delle operette, o sui valzerini che sembrava una scherzo solo tra loro due, anche con quella musica lì.
E i capelli di lei, e il suo profumo, e gli occhi con cui lo guardava quando si abbracciavano. E finivano sempre che facevano l’amore, anche se erano stremati dal lavoro nell’orto dopo aver anche lavorato tutto il giorno, lui come falegname, e lei come sarta.
La casa era piena di ricordi della moglie, e Luìs non ci mise più piede dopo il funerale: fu allora che iniziò a vivere per strada, e Nina non sapeva neanche lei cosa dirgli, a quell’uomo che aveva fatto così felice sua sorella, che Mariute le augurava di innamorarsi e di trovarsi un uomo così, semplice e gentile, che non sapeva che gioia era stare insieme, e il calore nella notte, di un uomo nel letto.
Dopo tre anni dalla morte di Mariute, e il prete, Don Gino, non era ancora andato a parlare col Luìs, la figlia del Toni, il mezzadro, Vittorina detta Leda, veniva in età da marito.
Quanto il Toni era un ometto tarchiato, con le dita grosse per il lavoro, e i capelli bianchi, che glieli aveva fatti venire quel diavolo di sua moglie, la Teresa, così la Leda era bella che pareva un angelo, con le gambe lunghe e i capelli biondi e ricci.
La Leda forse era troppo gentile per questo mondo, e si ammalò di tifo, che anche in questi anni non era facile da curare, ma il dottore venne in paese la sera stessa che la Leda sputò sangue la prima volta, perchè anche lui sapeva che la figlia del mezzadro era una primizia, e bella come la primavera.
Luìs non ci impiegò molto: la sera stessa bussò a casa della Nina.
Nina si guardò bene intorno che non ci fosse nessuno a guardarli, ma Luìs era stato prudente, e non c’era nessuno, così Nina lo fece entrare in casa, almeno cinque minuti, che stesse vicino alla cucina economica, e le dicesse quello che doveva dirle al caldo.
“Nina”, disse Luìs, “la Vittorina si è ammalata, quella del Toni, l’ho vista io già quando tornava dalla messa domenica. Stanotte viene il dottore a visitarla”.
Nina guardò con occhi tristi il suo bel cognato, tutto sporco in volto, con la barba lunga e grigia, e quegli occhi febbricitanti, che sembrava dicessero che non sarebbe durato a lungo in quelle condizioni, e ripensò a quello che le diceva sua sorella prima di ammalarsi, quando stava bene, che le sembrò per un attimo che le si spaccasse il cuore.
“Luìs, ti prego, fai in modo che il prete ti parli, domani o dopodomani, ma adesso torna sulla strada, per carità: ci penso io a tutto quanto, ma tu torna sotto al ponte e non parlarmi più di mia sorella, non parlarmi più di questa notte, giuramelo!”.
E, che il Signore la perdonasse, baciò suo cognato sulla bocca, come fanno gli innamorati.
Il Luìs non se l’aspettava e si trovò in bocca il sapore della sua Mariute, dopo tre anni, e chiuse solo gli occhi e baciò anche lui sua cognata, con tutto l’amore che aveva ancora nel cuore, che il Signore lo perdonasse.
Si separarono all’unisono, e tutti e due si voltarono, e Luìs si incamminò nel vialetto buio, con le scarpe rotte a sciabattare nel fango e a piangere ancora per la sua Mariute, e per la sua sorella gentile, la Nina, che lui le voleva bene uguale, anche se non avevano mai ascoltato il giradischi insieme.
La Nina rientrò in casa e chiuse subito la porta e accese più forte la lampada, e si asciugò anche lei le lacrime, che aveva tanta roba da fare e non era tempo di piangere.
Naturalmente vennero i carabinieri, ma non vennero quella notte. Vennero il giorno dopo, quando Domenico, detto il Meni, vide due strisce grattate sulla strada bianca subito fuori del paese, mentre andava al suo campo a lavorare.
L’automobile era rovesciata nel bosco fuori strada. Il Dotòr Gambalossi era andato dritto invece che curvare, o aveva perso il controllo della macchina. Dietro ai vetri rotti lo trovarono con la testa reclinata e una lunga striscia di sangue, ormai fermo, che gli partiva da una tempia e scendeva a sgocciolare sulle foglie del sottobosco.
Era una tragedia, e in paese e in tutta la valle la voce si sparse veloce come si spargono le voci quando si mettono all’opera le beghine e le pettegole, e il Primo, quello che teneva l’osteria della Luna, quella del paese più grande, che ormai lo sapevano tutti che non sapeva tenere un segreto, figurarsi una notizia come questa, che ne parlarono anche i giornali della città.
Venne un nuovo dottore, il Dotòr Dell’Antona, più giovane e che si faceva pagare più caro, perchè aveva studiato in America, e non ci veniva volentieri, a sprecare il suo talento e il suo studio, per le vite miserabili dei contadini in quei paesi sperduti.
Si fecero presto i funerali del vecchio Dotòr Gambalossi, e la gente ne parlò per un sacco di tempo, di come guidasse veloce, di come fosse spericolato, ma di quanti uomini e donne avesse salvato dalla tubercolosi e dalle febbri, e di come fosse gentile.
Ma dopo il terzo o quarto bicchiere, nelle osterie, gli uomini perbene, con gli amici stretti, quelli che sanno tenere i segreti, ogni tanto raccontavano di quelle voci, che il Dotòr Gambalossi fosse un furbacchione, e che tenesse nella valigetta con gli strumenti del medico, dei preservativi di gomma, di quelli americani, e che qualche volta si facesse un po’ pregare per fare il suo mestiere, ma solo dalle belle donne e dalle ragazze, e che qualche volta avesse lasciato la febbre fare il suo corso se veniva rifiutato.
Voci maligne, che era peccato anche solo ripetere, ma sapete come sono i pettegoli del paese: il prete dice che a chi spettegola ci cresce la malignità nelle orecchie e poi infetta la bocca e alla fine il cuore, che non si dovrebbe più prendere la Comunione se non ci si confessa prima dei pettegolezzi.
Alla fine il prete si decise a parlare con Luìs, un giorno che lui gli aveva chiesto un tozzo di pane, e non aveva detto di dargli le particole dal tabernacolo, come invece faceva di solito, ma solo un tozzo di pane, che stava morendo di fame.
E il prete se lo portò in canonica e gli diede del formaggio e le patate della sera prima, e gli disse che doveva smettere di comportarsi come uno stupido e un matto, che stupido non era, e che quella non era la vita che Mariute avrebbe voluto per lui.
Luìs avrebbe voluto dirgli di tacere, che non doveva neanche nominare la sua Mariute, ma stette zitto, e alla fine si lasciò convincere a tornare alla sua casa, e a tagliarsi i capelli e la barba, e a farsi un bagno.
Era tutto uno scheletro, dopo tre anni che viveva senza mangiare e senza lavoro.
Con la Nina cominciò a frequentarla per bene, dopo la messa, o alla sagra del paese.
Lui non era più divertente, e aveva un’ombra negli occhi che non gli sarebbe più andata via.
Ma l’ombra negli occhi di lei, l’ombra di quei sassi scagliati verso i fari che tagliavano il buio del bosco, quell’ombra era lui l’unico che poteva vederla, e stava zitto.
Alla fine l’avrebbe sposata, e non importava se non le fosse piaciuta la musica, o se fossero troppo vecchi per ballare: stava invecchiando, e non avrebbe avuto altre gioie che questa, prima di morire.
E glielo doveva, dopo quello che lei aveva fatto per lui.
E per sua sorella, la sua Mariute.
Una buona doccia e un buon drink.
Si stravaccò sulla poltrona a deprimersi della vita.
Lavorare a stretto contatto con mostruosità sovrannaturali avrebbe dovuto fargliela apprezzare di più: anche all’Accademia consigliavano di sfruttare il tempo libero a socializzare, bere in compagnia, uscire, ma Dave dava la colpa alle donne.
Ne aveva conosciuta la sua parte sul lavoro: vampire, mutanti, cultiste e Adepte, ma anche semplici stramboidi, e qualche volta anche delle vere umane.
Aveva sempre rifiutato di diventare il centro della loro esistenza, non che loro avessero insistito poi più di tanto.
Nessuna sorpresa quindi che, di riflesso, non avesse permesso a nessuna di diventare la sua unica ragione di vita.
La vita, filosofeggiò, era ben altro che una sola persona, quindi meglio condividere il più possibile, ma lasciare che ognuno si tenesse dello spazio per sè.
Il pensiero gli piacque.
Si versò un altro dito di whisky e brindò alla piccola epifania, da solo, nel suo salottino squallido.
Quel liquore gli andò giù un po’ più amaro del solito.
Inizio sempre a correre tra l’undicesima e la quarta, sul marciapiede sotto casa.
Negli anni ho messo insieme un equipaggiamento semi-professionale per facilitare i miei ritmi di maratoneta.
Un buon paio di scarpe, maglietta e pantaloncini in tessuto tecnico, calzini che assorbono il sudore senza inumidirsi – e non ho idea di come abbiano reso possibile questo risultato. Mi pare qualcosa di sacro, ma mi sforzo di trattare i miei calzini con noncuranza, come se i loro miracoli fossero azioni scontate.
inizio a correre verso ovest, verso il mare, con un ritmo sostenuto.
Tutta la prima parte del percorso, il mio quartiere, è un quartiere delizioso: agli angoli delle strade i suonatori ambulanti si prodigano con degli Stanway Grand, e sciami di farafalle spesso si contendono le strade con le gigantesche bolle di sapone dei bambini.
Ho sempre la tentazione di rallentare e mettermi a passeggiare invece che correre, ma non lo faccio mai. Nemmeno stavolta.
Non sono nemmeno uscito dal quartiere che mi viene un prurito alla pianta del piede. Le scarpe sono semi professionali, e questo significa che la suola è fatta in modo da attutire il contatto con il suolo. È un’ottimo vantaggio per correre, ma un disastro se vorresti che qualcosa ti grattasse la pianta del piede quando ti prude.
Comincio a correre sugli spigoli dei marciapiedi, sul selciato sconnesso, ma non funziona. Cerco di concentrarmi sul respiro, sul cielo, sulle scapole (mi viene prurito anche alle scapole), sul traffico in strada, ma niente: distrarmi serve a malapena ad attenuare il prurito, ma poi si ripresenta più forte di prima.
Comincio a cercare strade dissestate per correre sui ciottoli appuntiti.
Ormai non posso fermarmi: ho preso il ritmo e spezzato il fiato – se mi togliessi le scarpe per grattarmi non potrei più riprendere lo slancio, quindi continuo a correre.
I ciottoli non funzionano, quindi attacco una nuova strada in salita, dove mi è sembrato di vedere dei cingolati: voglio provare a correre sui cingoli in movimento perchè forse riusciranno a placare il prurito attraverso le suole delle scarpe.
Sono in un quartiere residenziale, ma non è bello come il mio: è vicino a un quartiere di uffici e i lavori in corso qui sono onnipresenti. Corro accentuando l’attrito tra i piedi e i cingoli in movimento, ma niente.
Entro negli uffici che costeggiano la strada, corro tra le scrivanie. Sono tutte uguali e il panorama di grafici appesi alle pareti è desolante: sono quasi tutti al ribasso.
Corro per un po’ sulle penne lasciate sulle scrivanie. Le oche mi guardano con evidente fastidio quando corro sulle loro penne, ma ormai ho preso il ritmo e il mio corpo va avanti senza nemmeno pensare di rallentare. Non potrei nemmeno se volessi.
All’uscita degli uffici il quartiere degrada in una ampio parco comunale: lo conosco bene perchè spesso ci sono venuto ad allenarmi in passato.
Oggi ci sono famigliole che fanno i pic-nic, per cui si vedono enormi porchette ad arrostire e torte a 24 piani ricoperte di panna. Hanno il diametro di piccole piscine e devo per forza ripromettermi di ritornare dopo l’allenamento a chiederne una fetta. Anche le porchette sanno come farsi ammirare: si massaggiano le coscie con un’espressione molto lasciva – e poi l’inaspettato: quando più vorrei riconsiderare la mia determinazione e fermarmi a banchettare, mi affianca la Regina madre d’Inghilterra con i sui corgi. Per essere una vecchietta in abito formale (rosa pastello) e decolleté abbinate devo dire che ha una resistenza sorprendente.
Mi sorpassa subito prima di uscire dal parco. Il mio inchino è un po’ limitato, ma non ci sono dragoni che potrebbero punirmi per l’irriverenza. E poi sto correndo, non ci si può inchinare come si deve mentre si corre. È una concessione specifica del galateo.
Fuori dal parco inizia il quartiere del porto, e in tanti corrono in questo quartiere. Mi affianco anche a un rinoceronte. Abbiamo una buona intesa sulla corsa, e sulla base di questa affinità mi permetto a ogni falcata di appoggiare il piede sulla punta del corno – e quasi quasi… mi pare che dia sollievo al prurito.
Corriamo su galeoni e navi da crociera e navi portacontainer e barchette di pescatori.
Poi ci separiamo: io preferisco correre nelle viuzze strette del porto, il rinoceronte invece carica a piena forza il mare aperto.
Le case sono dipinte con colori vivaci e mi piace correrci in mezzo. Mi perdo intenzionalmente nel dedalo variopinto e non manco di salutare tutti i vecchietti che giocano a carte seduti fuori dai bar. Sono tanti, ma i miei saluti sono veloci come i miei passi.
MI rispondono felicemente, con una allegra caciara di bestemmie e grida in dialetto.
È quasi il tramonto, e sono soddisfatto della corsa di oggi. Mi fermo in cima alla collina che sovrasta il porto. Guardo con soddisfazione il mare e le onde che riflettono la luce. Il rinoceronte pascola sereno, in un campo di tonni. I vecchi pescatori stanno rialzando i tavolini che ho rovesciato correndo. La Regina madre d’Inghilterra sta ancora correndo a oriente, con una bella falcata sicura. I corgi invece ansimano un po’.
Che magnifica giornata.
Una stanza vuota. Quattro pareti di cemento grigio, troppo strette per due sole persone. Nessun arredamento. Luce diffusa. Impossibile stabilirne la provenienza.
Fu lei a rompere il lieve ronzio del silenzio: “Ma dove…? Dobbiamo iniziare in una stanzetta opprimente?”.
I muri angusti semplicemente svanirono, lasciandoli a disagio nell’oscurità.
“Ok, ma possiamo stare da qualche parte? Questo nulla mi farà venire gli incubi” disse lui. Avrebbe dovuto sapere che c’erano delle regole ben precise sugli incubi, ma lo disse comunque.
Lei suggerì un prato in estate, e iniziarono da lì.
Prima l’odore dell’erba in primavera. Lei completò il cielo: aria tersa e rare nuvole sfilacciate che screziavano il blu profondo. Il sole proiettava striature più calde sulla pelle. Ovviamente il sole non era mai direttamente visibile: la luce era diffusa, e la sua fonte primaria restava nascosta.
Lui aggiunse la sensazione dell’erba morbida sotto ai piedi nudi, e un sorriso gentile sulle labbra della sua ragazza.
“Facciamo qualcosa di più strano!” e il cielo assunse una tonalità verde brillante, come l’acqua nei laghetti di montagna, o il colore di certe libellule.
Di solito non avrebbe mai esercitato un cambiamento simile senza chiedere prima il permesso. Ci avrebbe meditato sopra per un intero ciclo.
Lei rispose con una risata gaia di sorpresa, e l’erbetta tenera divenne arancione, tutta, in un colpo solo.
Crearono un palazzo con delle stanze grandissime, collegate tutte da tubi pneumatici e colori iridescenti. Piano piano il gusto di lui iniziò ad assomigliare a quello della ragazza, mentre lei si faceva sempre più arrendevole e compiacente.
Il sesso fu dilatato, confuso, alternativamente romantico e violento. Soprattutto fu distaccato.
Come per gli incubi il sesso ha delle connotazioni che alterano troppo la connessione. Ammettere l’uno vorrebbe dire incoraggiare l’altro.
Dopo continuarono a giocare. Lei creò attorno al palazzo una civiltà e un mercato per vestirsi. I suoi fianchi si erano ristretti e i seni rassodati: si infastidì notando che i capelli erano diventati multicolore come un arcobaleno, molto simili all’acconciatura di una sexy star del momento.
Sapeva che questo faceva parte delle regole del gioco, ma non potè trattenere una punta di gelosia amara, e per un istante solo il cielo virò al rosso cupo, prima di tornare verde smeraldino.
Lui creò poco fuori dall’abitato dei monti scoscesi e delle rapide. Poteva percorrerle saltando da un masso a quello successivo: era diventato più forte e più muscoloso. Anche lui notò che la sua struttura corporea era stata assimilata a quella di un androgino cantante, glabro e con i muscoli molto definiti, ma aveva perso la naturale prudenza e gran parte dei freni inibitori, e se ne risentì molto meno di quanto non fosse risentita la ragazza.
Ormai era quasi completamente trasfigurato: non avrebbe potuto rimpiangere se stesso nemmeno se avesse voluto.
Lei si vestì con un favoloso abito da sera, cortissimo e sensuale, e decise subito che l’acqua del torrente avrebbe dovuto avere riflessi viola e porpora.
Andarono insieme all’avventura, ridendo degli spruzzi delle rapide, mentre scalavano ostacoli insuperabili per dei normali corpi umani.
Sarebbero arrivati presto in vetta, se la montagna non fosse cresciuta per permettere altri salti e scalate.
Quando alla fine arrivarono in vetta una voce femminile, gentile e incredibilmente impersonale, generata direttamente nelle loro teste, li informò che erano le 22:58, l’induttore dopaminico avrebbe interrotto il flusso in 1 minuto e 59 secondi e l’induttore alfa Athena Laser Serie 15, della AstroDream-Machines (R) li avrebbe scollegati per una veglia ottimale e densa di soddisfazioni, grazie alle inconfondibili proprietà oniriche sviluppate nei laboratori AstroDream Machines (R).
Lui sbattè le palpebre. L’oscurità si saturò di suoni reali: l’onnipresente brusio del traffico, le canzoni ad alto volume dei vicini, il vociare di una lite non abbastanza lontana.
Solo i led dell’induttore lampeggiavano rossi e verdi, ma l’inquinamento luminoso filtrava attraverso le tende spesse, definendo a malapena i contorni dello spazio.
Si tolse il jack neurale e si passò la mano tra i capelli un po’ lunghi e appiccicati dal sudore.
Lei aveva ancora gli occhi chiusi e lui immaginava già la litania di critiche a cui sarebbe stato sottoposto dalla ragazza. Immancabilmente e ininterrottamente, ogni volta dopo aver usato l’induttore e prima di andare a dormire.
Lei. Seno piatto e fianchi larghi. Capelli acconciati il tonalità scure, mogano, viola scuro, castano. Moda vecchia di quasi 3 mesi. Un tempo aveva amato i seni piccoli, ma ora li odiava, e lei rifiutava la mastoplastica solo per dargli fastidio: lui aveva accettato di buon grado la maggior parte degli interventi estetici che lei aveva proposto. Le spalle erano allargate e il petto villoso. Il grasso sulla pancia era stato rimosso, tre volte, ma continuava a riformarsi. E ora lei lo manipolava verso il fisico di ultima moda: glabro e snello come quell’efebico cantante pop.
Non si preoccupò: lei gli aveva sempre cambiato i suoi stessi gusti in base alla moda, ogni volta che avevano condiviso i sogni – e li condividevano ogni sera, per evadere dal lavoro opprimente, dalle responsabilità non adempiute, dai fallimenti e dalle delusioni che si erano accumulati anno dopo anno.
Lei aprì gli occhi e lo guardò nella penombra. Le luci dei led riflesse nelle sclere.
Fu rapido quasi come un vago presentimento, ma era quasi sicuro di averla vista stavolta.
In fondo allo sguardo di lei.
Una scintilla di odio.