In misura minore questo è quello che succede ai cervelli di tutti, e nelle mie elucubrazioni sull’identità volevo solo spingere un pochino l’acceleratore, e vedere dove avrebbero potuto portare certi meccanismi.
Sono circa 1400 parole, e si dovrebbero poter leggere in circa 5 minuti.
Se vi sembrano 86 minuti avvisatemi: forse mi è sfuggito qualche refuso.
Se vi sembrano solo 2 minuti avvisatemi: è ora che scriva qualcos’altro.
Era proprio lei, voglio dire, non mi sono confuso. Gabriella me la ricordo bene, mi ero preso una cotta mica da ridere al liceo, più di venti anni fa, eppure ora stava lì, di fronte a me, davanti alle porte del vagone della metropolitana, e non ancora diciottenne.
Non era invecchiata di un giorno, e se non fosse stato per i jeans attillatissimi e il giubbotto in pelle alla moda, non mi sarei accorto che era solo un’altra ragazza che le assomigliava.
Le assomigliava in maniera sorprendente.
La ragazza si ravviò i capelli dietro l’orecchio, con un gesto che mi era tanto familiare anche dopo tanti anni, e si preparò a scendere dalla metropolitana.
Fu l’impulso di un momento, ma la somiglianza era impossibile, così senza pensarci scesi anche io, anche se non era la mia fermata.
Stazione sconosciuta, corpi, cappotti, valigette, cappellini, trolley, cartelloni pubblicitari e piastrelle ingrigite dalla patina di umanità.
E in mezzo alla folla persi di vista la ragazza che tanto assomigliava alla Gabriella del mio passato, ma ebbi comunque una sorpresa: Dario, il mio amico dell’università! Eravamo stati inseparabili per anni, al punto da essere stati insieme alle stesse ragazze (Elisabetta e poi Michela: la prima è stata con me qualche mese prima di invaghirsi di Dario, l’altra è stata tre anni con lui, prima di mollarlo e mettersi con me dopo finita l’università).
Mi sbraccio e attiro la sua attenzione, ma Dario non mi riconosce: in effetti non ha nemmeno un capello grigio e sembra un impiegatuccio appena assunto, con il completo che cade grande sulle spalle e i pantaloni troppo lunghi sulle gambe magre, mentre come mio coscritto dovrebbe avere almeno una ampia pelata, e più di qualche capello grigio.
Sembra addirittura un po’ spaventato per il mio saluto e accelera il passo.
Devo essermi confuso.
Due volte di fila.
Resto pensoso sulla banchina in attesa del prossimo treno della metropolitana, ma vengo distratto da una signora che mi chiede l’ora.
È Elisabetta. La stessa Elisabetta che il sosia di Dario mi ha fatto tornare alla memoria. Per non sbagliarmi controllo bene le piccole rughe intorno agli occhi verdi: sembra molto abbronzata, e questo fa risaltare il suo sguardo. Quando siamo stati insieme, per quanto la nostra storia fosse durata solo pochi mesi, era già molto consapevole della profondità del suo sguardo, ma con questo trucco pesante l’effetto si accentua, e mi sembra di perdermi nei suoi occhi.
“Elisabetta! Che piacere rivederti! Dopo tutti questi anni…”, ma la frase mi muore in gola.
Gli occhi bistrati sono atteggiati a smarrimento. Sorride solo con la bocca, denti bianchi, e mi dice la frase di circostanza “mi spiace, ma forse mi confonde con qualcun altro”.
È il mio turno di essere smarrito. Mi scuso, ma non riesco ancora a capacitarmi della incredibile coincidenza. Mi scuso ancora, le dico l’ora, mi faccio coraggio: le dico che la mia amica aveva un piccolo tatuaggio dietro l’orecchio, e la signora ride e mi mostra che lei non ha e non ha mai avuto simili tatuaggi. Mi mostra la pelle dietro entrambe le orecchie, per farmi verificare. Non è Elisabetta, si chiama Caterina. Eppure ogni movenza, il taglio della bocca, le dita lunghe delle mani. Come avrei potuto distinguerla?
Sono evidentemente confuso, ma per darmi un tono e cercare di ricompormi rido con lei, e ne approfitto per invitarla a prendere un caffè. Non le sfugge come questo approccio sia una richiesta di aiuto, a malapena camuffata: qualcosa di strano mi sta succedendo, e ho bisogno di avere qualcuno vicino per ricomporre il mio mondo.
Il fatto che lei assomigli tanto a Elisabetta poi mi sbilancia continuamente: non riesco a non rivivere le stesse sensazioni che provavo oltre venti anni fa, quando non stavo nella pelle per avere stretto un rapporto con una ragazza tanto bella. Non riuscivo a staccarle le mani di dosso, e mi sembrava di avere il mondo tra le mani.
Ora devo fare uno sforzo per non lasciarmi andare come avevo fatto allora.
Ci sediamo in un caffè e ordiniamo. Lei mi studia con attenzione, mentre mi tengo le mani in mano. Se non le tenessi so che tremerebbero per l’eccitazione di ricordare Elisabetta e per la stranezza di non riuscire più a arginare i ricordi di così tante persone del mio passato, che continuano a comparirmi davanti.
Il cameriere è identico a mio figlio, solo non ha quel ridicolo orecchino e si è lasciato crescere il pizzetto. La passante che ci sfiora potrebbe essere la mia maestra delle elementari, se non fosse morta da quindici anni. Il signore distinto che sorseggia un caffè nel tavolino accanto al nostro è identico al mio insegnante di nuoto, invecchiato e smagrito, ma è indubbiamente lui.
È come se si fosse rotta una diga nella mia mente.
Mi passo il fazzoletto sulla fronte sudata, e mi accorgo che Caterina mi sta fissando con una espressione accigliata: “lei assomiglia molto a un mio vecchio amico, me ne sono accorta solo ora che si è asciugato la fronte come faceva sempre lui. Mi manca molto.”
Il sorriso che mi rivolge è molto triste, e cerco di sorriderle di rimando, ma credo mi riesca solo una smorfia pietosa: lei per me è e continua a essere Elisabetta.
Provo le stesse emozioni di quasi venti anni fa, ma questo momento che ripete il passato non mi appartiene. I miei sentimenti si ribellano contro quello che so.
Questa donna si chiama Caterina, mi ricorda Elisabetta. Si muove come lei, ma è un’altra persona.
Se davvero anche io per lei sono un simulacro di un passato che non avrebbe dovuto ripetersi, mi vergogno di essermi asciugato la fronte con quel gesto distratto.
Mi imbarazza avere rubato un gesto a qualcuno che l’aveva posseduto prima di me.
Mi svilisce essere paragonato e assimilato a qualcun altro, a uno sconosciuto di cui non so nulla, se non che è stato importante per Elisabetta. Caterina, volevo dire che è stato importante per Caterina.
Intorno a noi anche i passanti cominciano a mostrare gli stessi preoccupanti segni: il figlio che vedo nei weekend, sbarbato e in divisa da cameriere, approccia il distinto insegnante di nuoto, che forse non ha mai nuotato in vita sua e gli dice: “Scusi se la disturbo, ma lei è identico a mio nonno! Sa, è mancato pochi mesi fa”.
Cancello presto la stortura che mi deforma la bocca, e che avrebbe voluto essere un sorriso di comprensione per la mia compagna di sventure, e mi concentro sulla situazione, che non può essere vera.
Forse si tratta di una malattia cerebrale. Forse è grave. Magari è anche contagiosa.
Una di quelle nuove epidemie che spuntano fuori ogni tanto, e nel giro di due settimane diventano un passato allarme sui telegiornali, dopo che il virus è stato isolato e neutralizzato: le migliaia di vittime presto dimenticate da tutti, eccetto che da chi le conosceva, per cui diventano una storia da raccontare.
“Un mio caro amico! Un parente! Una fidanzata! È morta per quella famosa malattia, quella che poi hanno debellato”.
E poi la mia fantasia conclude questo dialogo immaginario chiudendo il cerchio: “Lei le assomiglia moltissimo…”
Non aspettiamo oltre la reazione del signore al riconoscimento da parte del cameriere: mi alzo e afferro la mano di Elisabetta (Caterina!). Le faccio segno che non c’è tempo da perdere.
Lascio gli spiccioli sul tavolino e ci allontaniamo veloci.
Sui marciapiedi intanto chi non ha una faccia stravolta e gli occhi bassi sfida e riconosce i propri fantasmi negli altri passanti.
Tutti si riconoscono.
Io tengo la testa bassa, ma quando sbircio avanti rivedo persone che non sapevo di ricordare. Compagni di classe delle elementari, sbiaditi, riprendono forma fisica.
La mia pediatra, colleghi, professionisti, amici, e via via fino ai conoscenti occasionali, di cui non ho mai saputo il nome, ma di cui riconosco perfettamente le fattezze nelle persone di cui incrocio lo sguardo.
I passanti sono coloro che passano, ma mai avevo dato il giusto valore a questa parola.
Una o due persone mi riconoscono a loro volta, e mi chiamano addirittura con nomi che non mi identificano: “Claudio!”, e poi “Antonio, cosa ci fai qui in città?”
Mi sforzo di ignorarli. Tiro la mano di Elisabetta per non lasciare che venga riconosciuta nei passati di altri passanti. “Sabrina!” “Marta!”.
Nomi propri, senza nessun corpo su cui fissarsi.
Quando non riesco più a trattenermi ci infiliamo in un portone aperto e senza nemmeno più sapere cosa sto facendo la abbraccio e scoppio a piangere.
Anche lei risponde al mio abbraccio, e sembra che non sia passato nemmeno un istante da quando facevamo all’amore e non ci toglievamo le mani di dosso. Cerco la sua bocca e ci baciamo nel sapore delle lacrime, con la passione data dalla paura.
In un soffio mi escono le parole che tenevo strette, che più di ogni cosa volevo seppellire dentro di me: “Elisabetta ti amo, ti amo, non ho mai smesso di amarti in tutti questi anni”.
“Lo sai che non possiamo stare insieme Franco, lo sai” mi risponde lei “dobbiamo smetterla di vederci, anche se mi manchi. Quanto ti desidero ancora adesso, Franco!”
Io non dico niente. Non voglio niente altro che abbracciarla, e vivere ancora quel sogno che sembrava passato irrimediabilmente.
Mi chiamavo Guido.