Sul senso del reale. E della vita di coppia

Visto il film “gone girl”, del mio appena-riabilitato-migliore-amico, David Fincher.
Finalmente il buon uomo è tornato in se, per raccontare qualcosa di più interessante delle impalpabili sfumature tra quello che uno pensa se ha o meno un panino in tasca.

Va sul concreto e ci va pesante. Pesante abbastanza da dire la sua tesi chiara e tonda: dare un senso alle cose è un bisogno fondamentale, è intrinseco nell’essere umano, ed è più forte di noi.
Ed è necessario che il senso non sia banale.

Non basta che un uomo e una donna stiano insieme, procreino e che tra loro ci sia qualcosa, quello che pare a loro. No.
No!
Il mio amico Fincher dice che abbiamo bisogno di credere che le nostre intelligenze servano a qualcosa di più che accettare più evidente delle realtà così com’è.
Crede, a ragione, che il senso che possiamo dare alle situazioni debba essere stratificato e complesso.
Che i segreti diano sapore alla vita.
Ma perchè i segreti e i significati esoterici acquistino realtà, bisogna che ci sia qualcun altro con cui condividerli.
Sennò resterebbero solo dei pensieri dentro la nostra testa. Degli amici immaginari.
Ma quando troviamo qualcuno che ci può capire, allora parliamo di cosa può succedere di meraviglioso tra due esseri umani pensanti.

Non stiamo parlando esattamente di unicorni rosa ricoperti di zucchero, o topolini coccolati da gatti bellissimi, ma del fatto che le donne o gli uomini con cui passiamo le nostre vite ci possano capire, almeno un poco, e che questo sia, in fondo, un barlume di quell’amore che non smettiamo mai di desiderare.

L’idea del film suggerisce che capire i mostri che sono negli altri significa poter continuare a sperare che qualcuno, un giorno, possa capire i mostri che siamo, e conviverci senza scappare.

Immaginate: poter realizzare l’ambizione di essere liberi dalle convenzioni sociali, essere veramente noi stessi, e nonostante questo non essere da soli.
Abbiamo già imparato, ferita dopo ferita, che mostrare chi siamo veramente è incompatibile con una vita soddisfacente nella società – e con i nostri simili.
Parliamo di una impresa difficile, dolorosa, e disperata.

Eppure tanti critici che hanno commentato il film lo hanno trovato amaro come il fiele, nero e cinico.
Io dico che a me è sembrato una favola meravigliosa.

Il gatto di polvere (una favola)

Nota: questo è il risultato di un esercizio con un gruppo di scrittura: https://www.facebook.com/groups/226238010898143/
Il compito era di scrivere una favola, continuando da un incipit dato.
L’incipit dato, per venire incontro alle mie facoltà mentali, sarà riportato in corsivo.
Buon divertimento

c’era una volta un gatto bello, bellissimo, elegante e sinuoso che impazziva letteralmente per il profumo dei libri. E più erano antichi più gli piacevano. Per forza! Lui era stato trovato dentro una libreria, così per puro caso e senza una spiegazione plausibile . In realtà va chiarito che lui non era affatto un gatto bensì… un gatto di polvere.
La sua pelliccia era un unico, morbido batuffolo grigio. I suoi denti piccole schegge del colore del legno. I suoi occhi fessure dorate, aperte su un altro mondo.
Era stato trovato nella libreria già alla fine dell’800, subito dopo l’inaugurazione del negozio.
Quel primo libraio avrebbe voluto scacciarlo, ma il gatto di polvere era così maestoso che in breve tempo divenne il vero proprietario della libreria, e il libraio solo un commesso di passaggio, uno tra i tanti librai che si sarebbero succeduti sotto l’occhio pigro del gatto di polvere.
Il libraio insegnò al suo erede a chiedere al gatto dove si trovassero le edizioni più rare, i testi più introvabili, e anche alcuni rarissimi libri mai scritti, e il gatto rispondeva infallibilmente. Così fecero tutti i librai di questa libreria, e il gatto di polvere continuò ad aggirarsi da padrone tra gli amati libri.
Un giorno dei nostri giorni a curare la libreria era una piccola libraia. Stava facendo le pulizie tra i libri, mentre il gatto di polvere, maestoso e regale, si leccava anche lui le zampe.
Tutto a un tratto, senza nessuna ragione evidente, il gatto di polvere le miagolò, con voce perfettamente umana, anche se dall’accento leggermente straniero: “reparto libri di cucina a fuoco lento, scaffale sud, al confine con i dizionari delle parole non dette, terzo ripiano dal basso, tra ‘deliziose attese per gourmet di cibi precotti’ e ‘dilette ricette per educande: come tenere l’invitato sulle spine”.
Poi, senza degnarla di uno sguardo, con il più fluido dei movimenti, saltò giù dalla pila di libri e strusciò il fianco contro lo stipite di uno scaffale, fino a girare l’angolo e scomparire.
La piccola libraia rimase interdetta per molti minuti, a chiedersi il significato di quella rivelazione improvvisa e non richiesta. Poi, trepidante e sedotta dalla curiosità, si mise a cercare il reparto, lo scaffale e il ripiano.
Aveva lavorato nella libreria del gatto di polvere per qualche anno ormai, con passione e buonumore, e pensava di avere catalogato e registrato tutti i libri, ma tra i due titoli nominati dal gatto di polvere trovò un piccolo libro che non aveva mai visto.
Anzi, non era nemmeno un libro: era un libercolo, un fascicoletto, un biglietto d’auguri, un mucchietto di fogli pressati insieme. Sulla copertina (che non era una copertina! Era una cartoncino sottile, una pagina, una velina) lesse il titolo: “poesie d’amore del libraio”, e sotto, piccolo, in numeri piccoli piccoli, da orafo: “1871”.
Il libraio doveva averle scritte e stampate in quell’anno, e poi doveva aver perduto il libricino. Probabilmente aveva chiesto al gatto dove avrebbe potuto ritrovarlo.
Si aggira tra gli scaffali con passo silenzioso e solenne, con la coda più soffice che possiate immaginare, grigia, che struscia sui dorsi dei libri impilati sugli scaffali, quasi come se li spolverasse. È un gatto di polvere dei libri. Sa dove si trovano i libri, anzi, sa tutto sui libri. Ma non è detto che risponda quando ce lo aspettiamo, o quando servirebbe a noi.