Facciamo finta che sia una sit-com, e mettiamo delle risate registrate in sottofondo.
Jung lo conosco pochissimo. Non ho mai letto nulla di suo, e non è mai entrato in nessun corso, lezione, libro di testo.
Sempre rimasto sullo sfondo. Da qualche parte, credo in qualche racconto di narrativa ho colto dei riferimenti a un Mare dell’Inconscio – su cui ho fantasticato da profano.
Chissà che cosa avrà voluto significare con quel nome un po’ altisonante. Boh.
Però, però.
Nella tarda adolescenza (che oggi potrebbe significare ‘alle soglie dei sessant’anni’, lo so), tra amici scemi quanto me, abbiamo discusso a lungo di come risolvere certe menate tipiche dell’età tardo adolescenziale.
La cosa strana è che nessuno sapeva nulla di Jung, ma alla fine all’idea di integrare il proprio lato oscuro ci siamo arrivati in maniera autonoma, senza indicazioni accademiche o scolastiche, e alla fine quella parte della teoria di Jung l’ho conosciuta, molto bene anche, e anche messa in pratica con una certa soddisfazione e con risultati più che brillanti.
Strano, vero? Come se davvero certe idee, ben stagionate, fossero davvero striscianti in una società, e possano germinare anche nei giovani (ehm) virgulti anche senza essere state insegnate formalmente.
Tanto per dire, le mie pulsioni cannibali mi sembrano più simpatiche adesso che le ho accettate serenamente, ma le mie unghie sono un po’ troppo croccanti per i miei gusti, e non so bene quanti lettori colgano al volo il mio senso dell’umorismo un po’ malato (inserire qui risate preregistrate).
Che ne dite di scoprirlo una sera a cena da me? Con una bella bottiglia di Chianti? Ftftftftftf
Poi sono arrivati i Tool, e tutto è stato facile in maniera quasi imbarazzante.
Così non vale.
No, non è un racconto sulla brutta pratica dell’autocitazione, ma la pietra tombale (l’ennesima, se possibile) sul fatto che sto scrivendo poco.
Però questo raccontino credo sia la cosa migliore che ho scritto, forse in assoluto, e non l’ha letta praticamente nessuno (a parte Menteminima).
Così mi chiedo, ma questo racconto mi sarebbe valsa una chance con Mezzocentimetro?
E, cazzate a parte, mi piacerebbe sentire qualche commento di altri estimatori e lettori.
L’Inverno sta arrivando, e le mie scorte di identità e buonumore sono già pericolosamente sottili. Tornare a un passato mitico che non tornerà (leggete: “illudersi di…”) mi solleverebbe l’umore.
A voi in pasto il mio passato di caratteri su schermo e brutti sogni:
Ormai Blade Runner 2049 è uscito da un po’, e avrete sicuramente avuto modo di leggere tutte le recensioni, tutti i commenti e il loro contrario.
A dire la verità ho un po’ perso lo Sguardo, quello per cui riuscivo a ‘leggere’ i film al volo, ma qualche intuizione che non si legge in giro l’ho avuta, e scritta per voi miei accaniti lettori.
Questo articolo che segue è stato pubblicato, con immagini e commenti ilari che vi consiglio di vedere, su “Lo Storione”, il blog di cinema più figo che ci sia (basta non dirlo ai 400 Calci, che quelli menano).
Il primo Blade Runner è il mio film preferito.
Ve lo dico subito, così se non sarò imparziale saprete perché.
Questo, signore e signori, è il sentimento
Non vi sto a spiegare perché lo considero un capolavoro totale, del Cinema e della narrativa (anzi, un giorno ve lo recensisco, spoiler inclusi), ma resta il fatto che produrre un seguito a un film irraggiungibile era un’impresa votata al fallimento.
Invece Villeneuve ha tirato fuori un gran bel film, almeno a livello visivo, e mi ha spiazzato.
“fermo dove sei e non girare un solo fotogramma in più!”
La fotografia, come molti hanno notato, è la stampella principale del film: è sublime, non c’è una inquadratura fuori posto. Praticamente con una fotografia così avremmo applaudito anche un film dei Vanzina.
Alcune scene, per la composizione e la visionarietà, mi hanno fatto venire in mente i film di Sorrentino (quelli belli, dove la telecamera va, e ti porta dove non saresti andato da solo – e scopri che ti piace).
Da qui in poi scriverò irriverenze nei confronti dei rimanenti dettagli del film (personaggi, trama, attori, significati poco chiari), ma non fatevi ingannare: la fotografia è una bomba e la trama ha comunque il pregio di essere solida, che è molto più di quello a cui Hollywood (Lindeloff coff coff) ci ha abituati.
SPOILERZZZ
Abbandonate la lettura se ci tenete alla suspance
La storia personale del protagonista, “K”, è, argutamente, una simmetria inversa di quella dell’originale: se Deckhart era (forse) un replicante (?) che si crede umano e che forse scopre di essere un replicante (forse), qui K è un replicante che SA di esserlo, e che per un po’ crede di scoprire di essere un umano ‘vero’, per poi arrendersi all’evidenza irrefutabile.
L’amico del KGB che mi ha accompagnato al cinema (tipo stampella della mia vecchiaia) ha fatto un bel parallelismo con Pinocchio.
Il burattino vuole fortissimamente essere un bambino vero per tutto il film.
E invece…
Ryan Gosling per me ha una faccia da paperino spaesato, quindi non è che mi abbia fatto impazzire nei panni di un rude ma innocente mattatoio a conduzione singola alla scoperta di se stesso e delle proprie origini.
Come ha detto Velociraptor ci domandiamo tutti che razza di figata sarebbe potuta uscire se avessero scelto un vero attore per questo ruolo. Ma vabbé, hanno preferito far crescere una barba di due giorni a Ryan Gosling.
Quack?
Dunque, K sa di essere un replicante fin dall’inizio, e questo significa che i suoi ricordi sono innesti.
Con un elegante (cough cough) acrobazia riescono a fargli raccontare un ricordo A CASO tra quelli innestati. Sarà importante, perché il nostro paperino non farà altro che riutilizzare la soluzione trovata in quel ricordo in ogni singola occasione.
Trova il bambino della profezia (scusate la libertà letteraria)?
Lo nasconde, e dice di averlo gettato nella fornace.
Salva il tizio che pensava fosse suo padre da una nemesi invincibile?
Lo nasconde e dice di averlo gettato nella fornace.
Da questo punto di vista abbiamo un personaggio anche troppo coerente con se stesso e con il suo unico schema di comportamento.
Se vogliamo vedere un’altra dimensione di paperino, una che ci parli dello sviluppo del personaggio, dobbiamo guardare alla IA olografica Joi.
“All you want is me”
Lei è un prodotto commerciale di massa, che promette di far vedere ai clienti tutto quello che vogliono vedere (e con Ana de Armas roba da vedere ce n’è eccome) e di dire quello che vogliono sentirsi dire.
E sempre lei dice al paperino K quanto sia speciale, quanto sia unico, quanto sia lui il personaggio cardine e miracoloso della vicenda.
Sembra di guardare dentro al cervello di un adolescente giapponese dei manga. “Sono l’Eletto, l’Unico. Figata!”.
Questo è davvero un meccanismo psicologico molto comune nell’adolescenza di definizione dell’identità: serve a creare una distinzione, per quanto finta, tra chi se la racconta e tutti gli altri, non importa se siano tutte fregnacce.
Questo è per quello che sono riuscito a capire io l’allegoria migliore del film, quella che può dire qualcosa della realtà di ciascuno di noi.
Per quanto ne so è anche l’unica.
In realtà la presenza di Joi solleva molti temi, tanto cari alla fantascienza e al cyberpunk: una sequenza di 0 e di 1 può davvero provare i sentimenti che è stata programmata per mostrare al ‘cliente’?
Fatevi la stessa domanda riguardo al/la vostro/a partner, e poi chiedetevi cosa vi fa essere così sicuri. La risposta è in fondo banale (se siete fortunati): la coerenza dei segnali – ovvero esattamente quello che una buona IA sarebbe programmata a fornire all’utente.
Questa la metto solo perché sembra stiano guardando insieme le foto della vacanza a Riccione
Questo vuole solo essere un complimento: il personaggio di Joi è in pratica un perfetto esempio dei dubbi che l’intelligenza artificiale porterà nelle relazioni umane, e non ha nulla da invidiare alle corrispettive di Her o in Ex Machina – e per la seconda volta si aggiudica la palma come miglior personaggio del film.
Ma torniamo a Pino’K’chio: quando il giocattolo rassicurante Joi gli viene rotto non ha più un bel faccino che gli dice quello che vuole sentirsi dire: non può più evitare che la verità gli venga rivelata, nuda e cruda: lui non è nessuno, e per di più è un prodotto (“made, not born”).
L’unica scelta che, secondo i ribelli che incontrerà subito dopo, gli darebbe la dignità di essere umano, sarebbe quella di sacrificarsi per quello in cui crede.
Lui crede che spaccare la faccia a quella maledetta psicopatica serial killer di Luv sia proprio il modo giusto per sacrificarsi, e chi sono io per dirgli di no?
Anzi! Bravo paperino!
Ora però farei notare una cosa: un assassinio per affogamento in acque limpide è forse una delle morti più orribili che si possano vedere su grande schermo; fortuna che Luv, vuoi per merito dell’attrice, vuoi per una magnifica interpretazione del personaggio, sia espressiva soprattutto sui piccoli gesti.
Una specie di lavoro di recitazione a togliere dell’espressività, che trasforma questa morte nell’equivalente recitativo di un’orgia tra un dildo di plastica e una torcia vagina (il tecnico delle ossa, ad esempio, mi ha fatto boccheggiare un casino, in confronto).
L’altro polo per lo sviluppo del personaggio K è papà Deckhart, Harrison Ford, quello vero, il primo. Non so se sia lo stesso Blade Runner del primo, la vecchiaia di Harrison Ford rende la questione irrilevante. La vecchiaia di Harrison Ford però è anche la ragione per cui il personaggio funziona: è ruvido, vecchio, stanco, fragile, col sorriso sbieco e più rimpianti di quanti ne avesse 30 anni fa. Fa l’apicoltore in una città virata in giallo, ma non mi metterò a polemizzare.
Harrison Ford che fa Harrison Ford e non un paperino: e gli riesce facile come respirare
Colpo di genio di Villeneuve o dello sceneggiatore: a distanza di 30 anni il film riesce a non spiegare se Deckhart è un umano o un replicante nuova generazione. Titilla lo spettatore, ma gli lascia la voglia di sapere che tanto ci era piaciuta (spoiler nello spoiler: era un replicante senza dubbio).
Insieme a Dave Bautista è l’unico attore qui che recita un personaggio interessante, di cui può fregare qualcosa agli spettatori e a cui sembra fregare qualcosa della storia.
Gli altri? Non pervenuti, oppure recitano come replicanti, oppure come IA, oppure cani (ciao Jared!)
Ci sarebbe da aprire una lunga parentesi su questo personaggio e il significato recondito della paternità, che ci porterebbe poi a un parallelismo con quello di Jared Leto, da qui discetteremmo sulla trasformazione dell’uomo (o del replicante, nel caso Deckhart) in padre, e del padre in dio, e su come il concetto di divinità sia stato trasformato da un elegante signore onnisciente – o che almeno ci provava, con tutti i suoi limiti da demiurgo – a cieco megalomane, implacabile, che ha tutto quello che i soldi possono comprare, ma non un paio di occhi nuovi, e non un laboratorio di ricerca per replicare una tecnologia di 30 anni prima.
Invece taglio corto: ne esce un personaggio debole, il cui unico scopo sembra essere quello di trasformare una hipster in un macguffin, e poi parla parla parla, non dice niente, e alla fine nemmeno muore.
Sì Jared, si capisce che sei cieco. Lo stai facendo fortissimo.
Sullo sfondo si muovono:
Dave Bautista: ruvido, vecchio, stanco, forte. Chissà perché se questo è un replicante gli bastano due occhialini da vista per far trapelare un mondo e una vita vissuta dietro ai capelli grigi radi. A K, Pinocchio, tutta la barba di due giorni del mondo ancora non gli toglie la faccia da paperino.
Robin Wright: l’abbiamo capito che lei è lì per far rispettare la legge e mantenere l’ordine, no? Più che un personaggio sembra una metafora vivente, un pezzo della vita di K che prende sembianze umane, come lo è Joi, ma con meno minutaggio e meno profondità.
La prostituta replicante fotocopia di Priss del primo film. Qui almeno, per sua fortuna (purtroppo per noi!) non si esibisce seminuda in acrobazie a scopo saturnismo, ma forse ci avrebbe guadagnato in popolarità.
Sua è comunque la battuta più bella del film (alle spese dell’ologramma di Joi).
La Predestinata, Figlia del Cacciatore, Origine della Memoria, Maestra delle Memorie, la Reclusa nella Propria Fantasia, Regina dei Primi Uomini e Protettrice del Reame, Personaggio Molto Complesso, che non da mai segno di mettere in pratica gli insegnamenti tratti dalle proprie stesse memorie (altri lo fanno per lei).
In pratica la vostra hipster di quartiere.
Se vi è piaciuta Amelie nel suo meraviglioso mondo almeno adesso sapete come continua la storia della vostra beniamina.
Luv. Soffre leggermente degli stessi disturbi del suo Creatore: psicopatia del serial killer in chiave ‘crying freeman’, sociopatia, recitazione minimale e/o non pervenuta. Sfonda le porte blindate a mani nude, potrebbe essere un elemento di tensione, come per il primo Terminator, ma non vediamo mai chiaramente di cosa è capace.
Villneuve, se vuoi farmi vedere un personaggio che sfonda una parete o una porta, è inutile che tu inquadri il muro o la porta DALLA PARTE OPPOSTA. Mi sono accorto che di solito un muro impalla tutti gli attori che ci stanno dietro, ma forse è una mia sensazione.
Ultimo commento per Denis Villeneuve.
Bravo, niente da dire, ma possibile che Los Angeles, mica un paesino montano, debba assomigliare a un incrocio tra una piece teatrale e le steppe gelate del Canada della sua infanzia?
Non parlo della neve, quella ci sta, ma … avete notato che i personaggi dialogano solo a due a due? Mai che tre personaggi si trovino a incrociare i monologhi, mai, solo dialoghi tra due personaggi alla volta.
Insomma, si vede che non è abituato ad avere troppe persone attorno, però è bravo, ne capisce di regia, ne capisce di fantascienza: 3 attori tre, potrebbe anche coordinarli, no?
Sembra una inezia, ma credo che la sensazione di irrealtà che ti lascia questo film, la crepa nella sospensione dell’incredulità, sia proprio nella mancanza di buona recitazione e nella teatralità dei dialoghi, delle scene: nessuno si tocca per caso, ogni contatto è coreografato, nessuno interrompe chi parla, nemmeno se è Jared Leto che parla parla parla.
LUI ha visto cose che paperino non potrebbe nemmeno immaginare
E tutti questi commenti
andranno perduti
nel tempo
come neve
sulle mani
Dormo ancora troppo poco. Il tempo libero e lo svago sono diventati dei miraggi da godere pochi minuti al giorno – quando va bene. Aspettiamo due o tre anni e speriamo bene.
In questi giorni mi sto sforzando di essere Gianni Morandi in internet e sui social.
Amici integralisti cattolici, perché non venite a spacciarmi le vostre fallacie cognitive e
i vostri autori roboanti di cretinità in questi giorni? Mi trovereste calmo come una mucca indù, e quindi ci scorneremmo comunque sulle vostre incapacità empatiche e logiche.
Sedicenti esperti di esoterismo satanista (segretamente sposati con il MOIGE), perché non venite oggi a menarcelo di quanto siete addentro ai meccanismi segreti dello show-biz e della moda?
Irredentisti della cospirazione, colleghi vegetani e antivacchinisti, poetastri che confondete la confusione delle idee con l’elevazione culturale: finché non date voce alle vostre teorie vi voglio bene!
Anzi! Vi voglio bene a prescindere, disprezzo solo le idee che propugnate (e le ‘poesie’ che spacciate)!
Visto? Gianni Morandi. Uguale.
Poi.
Sto pensando di cimentarmi con un racconto horror.
Non ho mai esplorato seriamente questo genere, e trovo la sfida molto stimolante. Adesso sto cercando un soggetto che mi dia spazio di manovra: ho timore di fare un tonfo tremendo.
Prossimo progetto: una recensione di Blade Runner.
Ne sto discutendo con Stanlio Kubrick sui 400 Calci (mi faccio chiamare Magari), e mi accorgo che qualche intuizione valida, che non si legge spesso in giro, ce l’ho.
Certo, parliamo di un mostro sacro, un titano del cinema, e io? Io non sono degno, ma ci proverò lo stesso.
Ultima novità letteraria: ho ripreso in mano la mia vecchia tesi, per svecchiarla e magari produrre un libercolo pubblicabile e vendibile.
Un disastro: tenerezza e casino.
Dozzine di tesi diverse da altri autori mescolate alla rinfusa, moltissime totalmente inutili ai fini della MIA tesi.
Dopo anni e anni nella mia testa quella tesi, la mia, si è distillata in pochi concetti chiarissimi, e ancora meno fonti da citare.
Dovessi riscriverla faticherei a superare le 4 pagine densissime di concetti e rimandi.
Ricomincerò a scrivere racconti porno e amen.
Speriamo sia un genere con un mercato pagante ancora florido, e che lo spirito di Anais Nin vegli su di me.
L’amico Giancarlo Buonofiglio, aizzato da Red, stimolato da Cuoreruotante, mi ha coinvolto in una catena di Sant’Antonio, per cui se continuerete a leggere rischiate di essere nominati a vostra volta e di patire: disturbi intestinali rumorosissimi, testimoni di Geova tutti i giorni all’alba (per 3 mesi) , cinghiali che vi grufolano nei vasi dei fiori e avances sessuali da modelli/modelle di lingerie (a seconda dei gusti) ma solo mentre in presenza del/la vostro/a partner più geloso/a.
Ovviamente una cosa a tre ve la sognate, sennò quando mai parteciperete alla catena?
La proposta recita così: “Ho pensato di creare un Tag con l’augurio che, come diceva la Regina ad Alice, allenandoci giornalmente a pensare a sei cose impossibili, possiamo avere quello stimolo in più che ci aiuti a credere che le giornate, a volte, possano anche stupirci ed essere migliori delle nostre aspettative, andando al di là di ogni nostro scetticismo.”
Regole del Tag:
Inserire il logo di Alice’s in Wonderland
Descrivere sei cose impossibili
Nominare tutti i follower che volete
Provvedo subito al logo, anche se potrebbero esserci delle imprecisioni…
Pensare a cose impossibili mi farà bene.
Trovare l’interruttore che mi rende un rompipalle. E magari disattivarlo. A volte si tratta solo di non cogliere certe differenze, certi dettagli, gli insulti più o meno velati, più o meno consapevoli, le prepotenze esercitate come fossero scontate, le implicazioni meno ovvie di un discorso, i “non capisci” invece dei “mi sono spiegato male”. Col cazzo che non capisco, capisco benissimo, ed è subito embolo.
Magari per realizzare questo punto però basterebbe che mi bevessi due shottini di rhum al mattino, appena sveglio, e poi a cadenza regolare ogni tre quarti d’ora.
Odio il rhum.
Scrivere, ma per davvero, sul serio, dalla mattina alla sera, e trovare parole per raccontare cose che diano forma alla realtà – forme che prima non aveva. Questo sta diventando sempre più impossibile per me, purtroppo. Passi per quei lampi di genio che appartengono, quando va bene, ai più grandi scrittori e pensatori, ma scrivere per professione, di gusto, per più di qualche minuto alla volta, è davvero impossibile.
Camminare a piedi scalzi sull’erba morbida, appena falciata di un prato, e sentire l’erba sciogliersi in sabbie mobili cremisi, e poi affondarci mentre il mio corpo viene tradotto in musica stridente e armonica al tempo stesso. Il sole dovrebbe splendere e odorare di sinestesia immobile.
Oh, sono richieste cose impossibili, ma verosimili: desiderare la pace nel mondo non era un’opzione.
Svegliarmi un giorno e capirne di Economia, Neurologia e Statistica, ma capirne sul serio, tanto, ben oltre il mio livello amatoriale. È indispensabile che questo avvenga senza mai aprire nemmeno un libro. Contemporaneamente dovrei anche ristabilire la forma fisica che avevo da ventenne e scoprirmi un esperto dei lavori casalinghi.
Vivere ogni giorno quotidianamente, con gioie e dolori, e tantissima distrazione e indifferenza, pensando a cose che non esistono con la testa tra le nuvole, mentre si invecchia e intorno a noi i nostri cari invecchiano alla stessa velocità.
Sopportare gli acciacchi, per quanto possibile, mentre le gioie si diradano. Soffrire dei dolori dei genitori, aspettando che la morte fermi i loro cuori per sempre, togliendo le uniche vere certezze delle nostre vite, e poi la morte fermerebbe i nostri cuori, e poi quelli dei nostri figli e di miliardi di persone attorno a noi, quelle vicine e quelle sconosciute. E scoppiare a piangere per nulla e per tutto questo, in macchina, in mezzo al traffico, da soli e senza una parola buona di conforto da nessuno, perché nessuno può sentirci, e a nessuno interessa.
Verosimile abbastanza?
Finire tutti, contemporaneamente, nel corpo e nella vita di qualcun altro, sempre diverso, a caso, anche solo per pochi minuti, ma ogni giorno.
Giusto il tempo di combinare una cazzata irreparabile, ma non mortale, no, così da poter tornare nei nostri rispettivi corpi e sorprenderci un po’ ogni giorno di una scelta inaspettata, di una scheggia impazzita nella nostra vita, di un istante fuori controllo.
Sconvolgere i piani, essere costretti a improvvisare, e scoprire qualcosa di diverso da quello che volevamo, ma che alla fine ci piaccia lo stesso, se non di più.
E ora dovrei nominare gli sventurati: chiunque sia arrivato fino a qui nella lettura è automaticamente nominato.
Divertitevi.
Aggiungerei OpinioniWeb-XYZ, che di solito scrive roba seria e ben argomentata (ovviamente sono in disaccordo su tutto), e mi sembra un delitto tirarlo dentro a questo gioco un po’ rocambolesco e un delitto non coinvolgerlo.
E poi miro in alto (troppo?) e nomino Erodaria e Odette, che al momento sono le migliori scrittrici di blog nel mio radar (non oso invece avvicinare Menteminima, non oso).
È tutto.
E ricordatevi: disturbi intestinali. Rumorosi.
Ma questa è la competenza per scrivere di esoterismo e di sette?
Scrivere libri, addirittura?
Quattro lezioni di catechismo e il complottismo imparato dalle spiegazioni delle sorprese degli ovetti kinder?
Mapperfavore!
Non state nemmeno a perdere tempo a visitare il blog, a meno che non abbiate neanche mai visto il mondo fuori dall’oratorio.
Giuro: da domani mi metto a rimaneggiare la mia tesi al fine di pubblicarla: se si possono pubblicare carciofate di ‘sto livello io poco poco sono il prossimo Eco.