Non so più scrivere.
Non so più pensare.
L’altro giorno ho avuto occasione di stare da solo con i miei pensieri (tornando a piedi dalla stazione, da solo, nella brodaglia calda dell’aria densa di agosto).
Mi sono passati per la testa alcune intuizioni sulla vita in generale e sulle frasi fatte in particolare, così ho provato a scrivere un post, come facevo da giovane.
Oh, come scalare un muro di cemento.
I pensieri impastonati insieme senza capo né coda – e la scrittura – beh, potete leggervela da voi: un po’ opaca nel migliore dei casi. Spuntata e convoluta, nel migliore dei casi. Tumefatta e gonfia, sbalzellante e scricchiolante, fisica e costretta, nel migliore dei casi.
Così mi è venuto un dubbio terribile: non è questione di esercizio!
Non è come andare in bicicletta: scrivere è qualcosa che hai, e un attimo (ehm… ‘attimo’) dopo non ce l’hai più.
Basta, finito.
Puoi iscriverti a un corso di pilates o di ikebana, la tua scrittura è inutile, difficile e non mancherà a nessuno – meno che meno a te, che non l’hai praticata per anni.
Forse è lo stesso con il pensiero: un gorgo in cui si viene risucchiati inevitabilmente.
Pensi ogni giorno un po’ meno, e ti svegli un giorno a vivere una vita automatica, di abitudini odiose, per cui essere sveglio non è che ti serva davvero a niente (anzi, è quasi un fastidio), e non sei più davvero tu, o il tuo vicino, o chiunque altro, ma solo un cataplasma di cellule e spazzatura ambulanti.
Quando ho avuto questa intuizione mi sono molto rasserenato: è da anni che vivo così, e non mi dispiace affatto quella sensazione di braci che a volte si arroventano tra la pancia e la testa.