Blade Runner 2049

Ormai Blade Runner 2049 è uscito da un po’, e avrete sicuramente avuto modo di leggere tutte le recensioni, tutti i commenti e il loro contrario.
A dire la verità ho un po’ perso lo Sguardo, quello per cui riuscivo a ‘leggere’ i film al volo, ma qualche intuizione che non si legge in giro l’ho avuta, e scritta per voi miei accaniti lettori.

Questo articolo che segue è stato pubblicato, con immagini e commenti ilari che vi consiglio di vedere, su “Lo Storione”, il blog di cinema più figo che ci sia (basta non dirlo ai 400 Calci, che quelli menano).

 

 

Il primo Blade Runner è il mio film preferito.
Ve lo dico subito, così se non sarò imparziale saprete perché.

Questo, signore e signori, è il sentimento

Non vi sto a spiegare perché lo considero un capolavoro totale, del Cinema e della narrativa (anzi, un giorno ve lo recensisco, spoiler inclusi), ma resta il fatto che produrre un seguito a un film irraggiungibile era un’impresa votata al fallimento.
Invece Villeneuve ha tirato fuori un gran bel film, almeno a livello visivo, e mi ha spiazzato.

“fermo dove sei e non girare un solo fotogramma in più!”

La fotografia, come molti hanno notato, è la stampella principale del film: è sublime, non c’è una inquadratura fuori posto. Praticamente con una fotografia così avremmo applaudito anche un film dei Vanzina.
Alcune scene, per la composizione e la visionarietà, mi hanno fatto venire in mente i film di Sorrentino (quelli belli, dove la telecamera va, e ti porta dove non saresti andato da solo – e scopri che ti piace).

Da qui in poi scriverò irriverenze nei confronti dei rimanenti dettagli del film (personaggi, trama, attori, significati poco chiari), ma non fatevi ingannare: la fotografia è una bomba e la trama ha comunque il pregio di essere solida, che è molto più di quello a cui Hollywood (Lindeloff coff coff) ci ha abituati.

SPOILERZZZ
Abbandonate la lettura se ci tenete alla suspance

La storia personale del protagonista, “K”, è, argutamente, una simmetria inversa di quella dell’originale: se Deckhart era (forse) un replicante (?) che si crede umano e che forse scopre di essere un replicante (forse), qui K è un replicante che SA di esserlo, e che per un po’ crede di scoprire di essere un umano ‘vero’, per poi arrendersi all’evidenza irrefutabile.

L’amico del KGB che mi ha accompagnato al cinema (tipo stampella della mia vecchiaia) ha fatto un bel parallelismo con Pinocchio.
Il burattino vuole fortissimamente essere un bambino vero per tutto il film.
E invece…

Ryan Gosling per me ha una faccia da paperino spaesato, quindi non è che mi abbia fatto impazzire nei panni di un rude ma innocente mattatoio a conduzione singola alla scoperta di se stesso e delle proprie origini.
Come ha detto Velociraptor ci domandiamo tutti che razza di figata sarebbe potuta uscire se avessero scelto un vero attore per questo ruolo. Ma vabbé, hanno preferito far crescere una barba di due giorni a Ryan Gosling.

Quack?

Dunque, K sa di essere un replicante fin dall’inizio, e questo significa che i suoi ricordi sono innesti.
Con un elegante (cough cough) acrobazia riescono a fargli raccontare un ricordo A CASO tra quelli innestati. Sarà importante, perché il nostro paperino non farà altro che riutilizzare la soluzione trovata in quel ricordo in ogni singola occasione.
Trova il bambino della profezia (scusate la libertà letteraria)?
Lo nasconde, e dice di averlo gettato nella fornace.
Salva il tizio che pensava fosse suo padre da una nemesi invincibile?
Lo nasconde e dice di averlo gettato nella fornace.

Da questo punto di vista abbiamo un personaggio anche troppo coerente con se stesso e con il suo unico schema di comportamento.

Se vogliamo vedere un’altra dimensione di paperino, una che ci parli dello sviluppo del personaggio, dobbiamo guardare alla IA olografica Joi.

“All you want is me”

Lei è un prodotto commerciale di massa, che promette di far vedere ai clienti tutto quello che vogliono vedere (e con Ana de Armas roba da vedere ce n’è eccome) e di dire quello che vogliono sentirsi dire.
E sempre lei dice al paperino K quanto sia speciale, quanto sia unico, quanto sia lui il personaggio cardine e miracoloso della vicenda.
Sembra di guardare dentro al cervello di un adolescente giapponese dei manga. “Sono l’Eletto, l’Unico. Figata!”.
Questo è davvero un meccanismo psicologico molto comune nell’adolescenza di definizione dell’identità: serve a creare una distinzione, per quanto finta, tra chi se la racconta e tutti gli altri, non importa se siano tutte fregnacce.
Questo è per quello che sono riuscito a capire io l’allegoria migliore del film, quella che può dire qualcosa della realtà di ciascuno di noi.
Per quanto ne so è anche l’unica.

In realtà la presenza di Joi solleva molti temi, tanto cari alla fantascienza e al cyberpunk: una sequenza di 0 e di 1 può davvero provare i sentimenti che è stata programmata per mostrare al ‘cliente’?
Fatevi la stessa domanda riguardo al/la vostro/a partner, e poi chiedetevi cosa vi fa essere così sicuri. La risposta è in fondo banale (se siete fortunati): la coerenza dei segnali – ovvero esattamente quello che una buona IA sarebbe programmata a fornire all’utente.

Questa la metto solo perché sembra stiano guardando insieme le foto della vacanza a Riccione

Questo vuole solo essere un complimento: il personaggio di Joi è in pratica un perfetto esempio dei dubbi che l’intelligenza artificiale porterà nelle relazioni umane, e non ha nulla da invidiare alle corrispettive di Her o in Ex Machina – e per la seconda volta si aggiudica la palma come miglior personaggio del film.

Ma torniamo a Pino’K’chio: quando il giocattolo rassicurante Joi gli viene rotto non ha più un bel faccino che gli dice quello che vuole sentirsi dire: non può più evitare che la verità gli venga rivelata, nuda e cruda: lui non è nessuno, e per di più è un prodotto (“made, not born”).

“I just tell my kids the same thing my daddy told me … you aint never gonna amount to nuthin’”

L’unica scelta che, secondo i ribelli che incontrerà subito dopo, gli darebbe la dignità di essere umano, sarebbe quella di sacrificarsi per quello in cui crede.
Lui crede che spaccare la faccia a quella maledetta psicopatica serial killer di Luv sia proprio il modo giusto per sacrificarsi, e chi sono io per dirgli di no?
Anzi! Bravo paperino!
Ora però farei notare una cosa: un assassinio per affogamento in acque limpide è forse una delle morti più orribili che si possano vedere su grande schermo; fortuna che Luv, vuoi per merito dell’attrice, vuoi per una magnifica interpretazione del personaggio, sia espressiva soprattutto sui piccoli gesti.
Una specie di lavoro di recitazione a togliere dell’espressività, che trasforma questa morte nell’equivalente recitativo di un’orgia tra un dildo di plastica e una torcia vagina (il tecnico delle ossa, ad esempio, mi ha fatto boccheggiare un casino, in confronto).

L’altro polo per lo sviluppo del personaggio K è papà Deckhart, Harrison Ford, quello vero, il primo. Non so se sia lo stesso Blade Runner del primo, la vecchiaia di Harrison Ford rende la questione irrilevante. La vecchiaia di Harrison Ford però è anche la ragione per cui il personaggio funziona: è ruvido, vecchio, stanco, fragile, col sorriso sbieco e più rimpianti di quanti ne avesse 30 anni fa. Fa l’apicoltore in una città virata in giallo, ma non mi metterò a polemizzare.

 

Harrison Ford che fa Harrison Ford e non un paperino: e gli riesce facile come respirare

Colpo di genio di Villeneuve o dello sceneggiatore: a distanza di 30 anni il film riesce a non spiegare se Deckhart è un umano o un replicante nuova generazione. Titilla lo spettatore, ma gli lascia la voglia di sapere che tanto ci era piaciuta (spoiler nello spoiler: era un replicante senza dubbio).

Insieme a Dave Bautista è l’unico attore qui che recita un personaggio interessante, di cui può fregare qualcosa agli spettatori e a cui sembra fregare qualcosa della storia.
Gli altri? Non pervenuti, oppure recitano come replicanti, oppure come IA, oppure cani (ciao Jared!)

Ci sarebbe da aprire una lunga parentesi su questo personaggio e il significato recondito della paternità, che ci porterebbe poi a un parallelismo con quello di Jared Leto, da qui discetteremmo sulla trasformazione dell’uomo (o del replicante, nel caso Deckhart) in padre, e del padre in dio, e su come il concetto di divinità sia stato trasformato da un elegante signore onnisciente – o che almeno ci provava, con tutti i suoi limiti da demiurgo – a cieco megalomane, implacabile, che ha tutto quello che i soldi possono comprare, ma non un paio di occhi nuovi, e non un laboratorio di ricerca per replicare una tecnologia di 30 anni prima.
Invece taglio corto: ne esce un personaggio debole, il cui unico scopo sembra essere quello di trasformare una hipster in un macguffin, e poi parla parla parla, non dice niente, e alla fine nemmeno muore.

Sì Jared, si capisce che sei cieco. Lo stai facendo fortissimo.

Sullo sfondo si muovono:

  • Dave Bautista: ruvido, vecchio, stanco, forte. Chissà perché se questo è un replicante gli bastano due occhialini da vista per far trapelare un mondo e una vita vissuta dietro ai capelli grigi radi. A K, Pinocchio, tutta la barba di due giorni del mondo ancora non gli toglie la faccia da paperino.
  • Robin Wright: l’abbiamo capito che lei è lì per far rispettare la legge e mantenere l’ordine, no? Più che un personaggio sembra una metafora vivente, un pezzo della vita di K che prende sembianze umane, come lo è Joi, ma con meno minutaggio e meno profondità.
  • La prostituta replicante fotocopia di Priss del primo film. Qui almeno, per sua fortuna (purtroppo per noi!) non si esibisce seminuda in acrobazie a scopo saturnismo, ma forse ci avrebbe guadagnato in popolarità.
    Sua è comunque la battuta più bella del film (alle spese dell’ologramma di Joi).
  • La Predestinata, Figlia del Cacciatore, Origine della Memoria, Maestra delle Memorie, la Reclusa nella Propria Fantasia, Regina dei Primi Uomini e Protettrice del Reame, Personaggio Molto Complesso, che non da mai segno di mettere in pratica gli insegnamenti tratti dalle proprie stesse memorie (altri lo fanno per lei).
    In pratica la vostra hipster di quartiere.
    Se vi è piaciuta Amelie nel suo meraviglioso mondo almeno adesso sapete come continua la storia della vostra beniamina.
  • Luv. Soffre leggermente degli stessi disturbi del suo Creatore: psicopatia del serial killer in chiave ‘crying freeman’, sociopatia, recitazione minimale e/o non pervenuta. Sfonda le porte blindate a mani nude, potrebbe essere un elemento di tensione, come per il primo Terminator, ma non vediamo mai chiaramente di cosa è capace.
    Villneuve, se vuoi farmi vedere un personaggio che sfonda una parete o una porta, è inutile che tu inquadri il muro o la porta DALLA PARTE OPPOSTA. Mi sono accorto che di solito un muro impalla tutti gli attori che ci stanno dietro, ma forse è una mia sensazione.

 

Ultimo commento per Denis Villeneuve.
Bravo, niente da dire, ma possibile che Los Angeles, mica un paesino montano, debba assomigliare a un incrocio tra una piece teatrale e le steppe gelate del Canada della sua infanzia?
Non parlo della neve, quella ci sta, ma … avete notato che i personaggi dialogano solo a due a due? Mai che tre personaggi si trovino a incrociare i monologhi, mai, solo dialoghi tra due personaggi alla volta.
Insomma, si vede che non è abituato ad avere troppe persone attorno, però è bravo, ne capisce di regia, ne capisce di fantascienza: 3 attori tre, potrebbe anche coordinarli, no?
Sembra una inezia, ma credo che la sensazione di irrealtà che ti lascia questo film, la crepa nella sospensione dell’incredulità, sia proprio nella mancanza di buona recitazione e nella teatralità dei dialoghi, delle scene: nessuno si tocca per caso, ogni contatto è coreografato, nessuno interrompe chi parla, nemmeno se è Jared Leto che parla parla parla.

LUI ha visto cose che paperino non potrebbe nemmeno immaginare

E tutti questi commenti
andranno perduti
nel tempo
come neve
sulle mani

Ehi! Maccheca!?

 

Una sera al cinema da solo

A vedere “The Lobster”.
“L’Aragosta”.
Un personaggio che palesemente non è fatto per ispirare soggezione. O ammirazione.

Non si vede una sola aragosta in tutto il film, ma il film disamina scrupolosamente e esattamente un meccanismo centrale della nostra società.
Cazzata.
* un meccanismo centrale della società umana.
Meglio.
* il meccanismo centrale della società umana.
Ci siamo.

Oserei dire che ci ho trovato un pezzo di me nel film – e lo so che deve essere una palla per chi lo legge ma non l’ha visto – tendo ad avere una vita mentale piuttosto attiva, così mi immedesimo e trovo coincidenze più con i personaggi e le storie dei film che con altri esseri umani.
Specie ultimamente.
Sì, beh, insomma, ne sto scrivendo qui, del film che ho visto, dico, perchè sono un po’ a corto di orecchie a cui parlare ultimamente. Orecchie che ascoltino e basta – e poi fare a turno, chiaro. Dovrebbero chiamarsi “amicizie”, in gergo tecnico.
L’autunno fa delle cose orribili alla mia autostima – e la mia socializzazione soffre come un cane mutilato in modo menomante e buffo. Tipo senza la mascella.

Il film ha una sensibilità grave (gravissima!) per cui continuamente trasla l’angoscia e il dolore interiore verso la crudeltà e la mutilazione fisica. Come se per dire che qualcuno viene straziato da una notizia, o da una discussione, o dalla solitudine, mostrassero il personaggio straziato fisicamente.
Ecco, questa è una specie di binario su cui spesso ha corso la mia fantasia e la mia sensibilità. Per questo ho trovato molte affinità con la messa in scena di questo film.

Poi parla di amore. E di relazioni sociali. E di costrutti sociali e di vincoli e di processi di Kafka, per intenderci. Obblighi di cui non eravamo neppure a conoscenza, e alla fine non sappiamo nemmeno perchè, ma veniamo condannati.

Quindi, dicevo, per tradurlo nel linguaggio greve del film, è come se questo film fosse un pezzo di me che mi è stato fisicamente asportato, tipo una fetta di fianco (è indispensabile includere nell’asportazione anche delle viscere: è un film allegorico e intimista), e può essere rinchiuso e lanciato in una capsula del tempo.
Come un messaggio dal me stesso del passato, quello che andava sempre al cinema da solo, e soffriva di solitudine come un cane, lasciato per un me stesso di un futuro a caso, uno qualsiasi, uno che si realizzi. Per non dimenticarmi di me stesso, come un monito.

E comunque andare al cinema da solo un po’ mi piace. Anzi, mi piace e basta, non ho nulla in contrario.
Mi piace perchè dopo mi fa venire voglia di scrivere o di parlare con qualcuno.
Credo di aver appena scritto una delle righe più tristi che si potessero scrivere, ma non è nulla, tranquilli.
È solo ottobre e va avanti così solo fino a maggio.

Sul senso del reale. E della vita di coppia

Visto il film “gone girl”, del mio appena-riabilitato-migliore-amico, David Fincher.
Finalmente il buon uomo è tornato in se, per raccontare qualcosa di più interessante delle impalpabili sfumature tra quello che uno pensa se ha o meno un panino in tasca.

Va sul concreto e ci va pesante. Pesante abbastanza da dire la sua tesi chiara e tonda: dare un senso alle cose è un bisogno fondamentale, è intrinseco nell’essere umano, ed è più forte di noi.
Ed è necessario che il senso non sia banale.

Non basta che un uomo e una donna stiano insieme, procreino e che tra loro ci sia qualcosa, quello che pare a loro. No.
No!
Il mio amico Fincher dice che abbiamo bisogno di credere che le nostre intelligenze servano a qualcosa di più che accettare più evidente delle realtà così com’è.
Crede, a ragione, che il senso che possiamo dare alle situazioni debba essere stratificato e complesso.
Che i segreti diano sapore alla vita.
Ma perchè i segreti e i significati esoterici acquistino realtà, bisogna che ci sia qualcun altro con cui condividerli.
Sennò resterebbero solo dei pensieri dentro la nostra testa. Degli amici immaginari.
Ma quando troviamo qualcuno che ci può capire, allora parliamo di cosa può succedere di meraviglioso tra due esseri umani pensanti.

Non stiamo parlando esattamente di unicorni rosa ricoperti di zucchero, o topolini coccolati da gatti bellissimi, ma del fatto che le donne o gli uomini con cui passiamo le nostre vite ci possano capire, almeno un poco, e che questo sia, in fondo, un barlume di quell’amore che non smettiamo mai di desiderare.

L’idea del film suggerisce che capire i mostri che sono negli altri significa poter continuare a sperare che qualcuno, un giorno, possa capire i mostri che siamo, e conviverci senza scappare.

Immaginate: poter realizzare l’ambizione di essere liberi dalle convenzioni sociali, essere veramente noi stessi, e nonostante questo non essere da soli.
Abbiamo già imparato, ferita dopo ferita, che mostrare chi siamo veramente è incompatibile con una vita soddisfacente nella società – e con i nostri simili.
Parliamo di una impresa difficile, dolorosa, e disperata.

Eppure tanti critici che hanno commentato il film lo hanno trovato amaro come il fiele, nero e cinico.
Io dico che a me è sembrato una favola meravigliosa.