In automobile tra le more

(da 102 racconti zen, di Richard Brautigan)

I rovi di more crescevano tutt’attorno e si inerpicavano come code di draghi verdi lungo le fiancate di vecchi magazzini abbandonati in una zona industriale che aveva visto tempi migliori. I rampicanti erano talmente fitti che la gente vi poggiava sopra delle assi a mo’ di ponte per raggiungere la parte più interna, dove stavano le more più buone.C’erano molti ponteggi che si protendevano verso i rampicanti. Alcuni di essi si componevano di cinque o sei assi e bisognava avere un grande equilibrio per percorrerli, perchè se si cadeva non c’erano altro che rovi di sotto, per una cinquantina di metri, e ci si poteva fare male davvero sulle spine.
Non era un posto in cui ci si andava per caso, a raccogliere qualche mora per farci una torta e per mangiarsela con latte e zucchero. Si andava lì a prendere le more da fare le marmellate per l’inverno, o da vendere, quando uno aveva bisogno di più soldi di quelli che servono per vedere un film al cinema. C’erano tante di quelle more laggiù che quasi non ci si credeva. Erano grosse come diamanti neri, ma per raccoglierle occorreva un’abilità tecnica degna di un invasore medioevale, bisognava recidere i punti d’accesso e gettarvi dei ponti, come se si volesse prendere d’assedio un castello.
– Il castello ha ceduto!
Certe volte, quando mi stancavo di raccogliere le more, mi mettevo a guardare nel buio fitto dei rovi degli scorci che parevano prigioni sotterranee. Si vedevano cose che non si sarebbero potute distinguere là dentro, e forme che cambiavano come fantasmi.
Una volta mi venne una tale curiosità che mi accovacciai sulla quinta asse di un ponte che avevo assemplato nel folto dei rovi e fissai lo sguardo nel profondo, dove le spine parevano aculei di una mazza ferrata finchè i miei occhi non si abituarono al buio, e riconobbi un’automobile giardinetta proprio sotto di me.
Restai lì accoccolato su quell’asse per un bel pezzo, con gli occhi fissi sull’auto finchè non mi accorsi di avere i crampi alle gambe. Per un paio d’ore circa arrancai tra i rovi, con i vestiti laceri e pieno di graffi sanguinanti, prima di poter raggiungere il sedile anteriore della macchina e poggiare le mani sul volante, un piede sull’acceleratore, l’altro sul freno, circondato da quell’odore di tappezzeria medioevale, e con lo sguardo che, attraverso il parabrezza, passava dall’oscurità del crepuscolo alle ombre verdi e soleggiate.
Arrivarono altri raccoglitori di more e cominciarono a raccogliere more sui ponti sovrastanti. Erano molto eccitati. Credo fosse la prima volta che mettessero piede in quel posto e che vedessero more come quelle.
Rimasi lì seduto nell’auto là sotto e ascoltai le loro parole.
– Ehi, guarda che more!